Hong Kong, la Cina e la propaganda mediatica

Le proteste che stanno sconvolgendo la città di Hong Kong hanno messo in moto la macchina mediatica occidentale in funzione anticinese, oscurando gran parte della verità.

Che si parli di Ucraina, Russia, Venezuela, Iran, Cina o qualsiasi altro Paese non allineato all’ordine mondiale voluto dagli Stati Uniti, la parola d’ordine è sempre la stessa: “democrazia”. A questo termine, sulla cui definizione i politologi hanno scritto pagine e pagine di dibattiti senza arrivare ad una soluzione definitiva, si fa ricorso ogni volta che la macchina mediatica vuole screditare un governo non genuflesso a Washington, venendo la storia secondo la quale i poveri cittadini privati dei propri diritti civili – e mai sociali – scendono in piazza per protestare contro la classe politica al potere.

Per sfortuna di chi ama bersi queste storie tutte d’un sorso, la realtà è ben più complessa e, diversamente da quanto ci viene propinato quotidianamente dai mass media occidentali (con l’assistenza anche dei vari Facebook e Twitter, pronti a censurare gli account filocinesi), la fetta di popolazione che viene mostrata scendere in piazza è generalmente minoritaria e proveniente dagli strati più agiati della società. Questo è un primo punto del quale tenere conto, e che vale per quasi tutti i casi che si sono verificati negli ultimi anni.

Parlando nello specifico del caso di Hong Kong e delle proteste contro la Cina e contro l’attuale governo locale di Carrie Lam, la realtà è ben diversa da quella che ci viene descritta. Al di là delle cifre palesemente false che ci vengono propinate – secondo le quali alle manifestazioni ci sarebbero fino a otto persone per metro quadro (!), facendo semplici calcoli matematici – nessun giornale o canale televisivo occidentale parla delle manifestazioni che invece si sono tenute in favore della definitiva riunificazione di Hong Kong con la Cina. Il 17 agosto, ad esempio, si è tenuta un’iniziativa nei pressi del porto Victoria di Hong Kong, che ha visto l’adesione di migliaia di persone che hanno sventolato bandiere cinesi e cantato l’inno nazionale della madrepatria.

Altro punto che viene taciuto, è l’ingiustificata violenza che ha caratterizzato molte iniziative all’interno di queste settimane di protesta. Giornalisti locali e stranieri, concittadini e turisti sono stati vittime non solamente dei disagi dovuti ai blocchi stradali ed all’occupazione dell’aeroporto, ma anche di vere e proprie vessazioni fisiche e danni ai propri oggetti personali. Non è un caso che nelle ultime settimane il turismo, uno dei settori economici più importanti per Hong Kong, abbia fatto registrare un crollo verticale, portando gli alberghi ed altri servizi a dover ridurre drasticamente i propri prezzi.

Per chi non conoscesse bene la storia di Hong Kong, ricordiamo che l’isola fu occupata il 20 gennaio 1841 dai britannici in occasione della prima guerra dell’oppio contro la dinastia cinese Qing. Con il trattato di Nanchino, stipulato il 29 agosto 1842, l’isola passò in cessione perpetua al Regno Unito. I britannici stabilirono una Colonia della corona britannica con la fondazione di Victoria City, avvenuta l’anno successivo. Tale situazione rimase invariata fino al 1984, anno nel quale è stata sottoscritta la dichiarazione congiunta fra Cina e Regno Unito, un accordo per il trasferimento della sovranità alla Repubblica Popolare Cinese, che stabiliva che Hong Kong sarebbe stato governato, a partire dal luglio 1997, come una regione amministrativa speciale, conservando le sue leggi e un alto grado di autonomia per almeno 50 anni, secondo il principio “un Paese, due sistemi”. Il 1º luglio 1997 vi fu il trasferimento della sovranità di Hong Kong dal Regno Unito alla Repubblica Popolare Cinese, che terminò ufficialmente i 156 anni di dominio coloniale britannico. Hong Kong divenne la prima regione amministrativa speciale della Cina e Tung Chee-Hwa assunse la carica di primo capo dell’esecutivo.

Secondo l’accordo tra Cina e Regno Unito, dunque, Hong Kong godrà del suo status di regione amministrativa speciale fino al 2047, quando il governo di Pechino potrà decidere di incorporare Hong Kong definitivamente all’interno del proprio territorio, ponendo fine alla politica dei due sistemi. Nell’ambito di questo futuro riavvicinamento, l’amministrazione filo-cinese di Hong Kong guidata da Carrie Lam ha deciso di introdurre una nuova legge per prevedere la possibilità di estradare nella Cina continentale tutte le persone accusate di reati gravi, ovvero di crimini punibili con una pena superiore ai sette anni di detenzione. Questo provvedimento ha rappresentato la miccia che ha fatto scattare le proteste.

Il governo cinese, dal canto suo, non ha potuto far a meno di denunciare le ingerenze da parte di potenze straniere che, se forse non sono state la causa scatenante delle rivolte, certamente non hanno mancato di manifestare il proprio sostegno alle stesse, naturalmente per mettere i bastoni fra le ruote di Pechino. Tra questi, spicca il vicepresidente statunitense Mike Pence, che si è lasciato andare a dichiarazioni che certamente non sono piaciute al presidente Xi Jinping ed al suo governo. Washington sta cercando invano di mescolare la questione di Hong Kong con la guerra commerciale in atto tra le due potenze, che fino ad ora ha visto gli Stati Uniti pesantemente sconfitti su tutti i fronti, e che potrebbe presto sancire il definitivo collasso della superpotenza a stelle e strisce. L’amministrazione Trump, infatti, si è rivelata decisamente aggressiva nei confronti della potenza emergente cinese, con l’effetto, però, di rafforzare ulteriormente la Cina e di mostrare le proprie debolezze.

Le risposte dal Celeste Impero, del resto, non si sono fatte attendere. Sulle pagine del Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito Comunista Cinese (Zhōngguó Gòngchǎndǎng), il giornalista Curtis Stone ha scritto che “il discorso di Pence è stato oltraggioso. Collegare il commercio ed Hong Kong non porterà le parti più vicine ad un accordo. L’amministrazione Trump sta sperando che la Cina ceda sotto pressione, ma è da sciocchi credere che la minaccia di mescolare le due questioni porti la Cina a fare concessioni. Il problema di Hong Kong riguarda la sovranità cinese, e la Cina non tratterà mai con Washington su tematiche riguardanti la propria sovranità“. Lu Qiao, sulla stessa testata, ha invece scritto che “sostenendo apertamente le proteste radicali ed intervenendo negli affari interni della Cina, certi politici assumono un ruolo vergognoso all’interno delle recenti proteste violente. Oramai non si preoccupano neppure più di nascondere le proprie intenzioni, venendo allo scoperto da dietro le quinte“.

Interessante, infine, l’analisi del politologo britannico Martin Jacques, dell’Università di Cambridge: “Hong Kong è oramai parte della Cina, e ciò offre enormi opportunità. Certamente, parte della gioventù di Hong Kong crede che la Cina non sia la via giusta da seguire… e io penso che siano nel torto. Hong Kong dovrebbe tentare di essere parte di ciò che sta accandendo nella Cina meridionale. Può prendervi parte, persino diventare leader in alcuni settori, ma dovrebbe mantenere una relazione positiva con la madrepatria cinese. In caso contrario, Hong Kong diventerebbe sempre meno importante e marginale“. A conferma di quanto affermato da Jacques, il governo cinese ha già annunciato la propria intenzione di spostare il proprio centro economico, commerciale e finanziario a Shenzhen, dimostrando di poter tranquillamente fare a meno di Hong Kong. Quest’ultimo, al contrario, non potrebbe sopravvivere senza il sostegno e gli investimenti di Pechino. “Se queste dimostrazioni avessero luogo nel Regno Unito – ha continuato Jacques – la reazione sarebbe completamente diversa. Questa è una delle ipocrisie fondamentali dell’atteggiamento occidentale“. L’accademico ha poi concluso: “Uno dei grandi problemi di Hong Kong è l’ignoranza che c’è sulla Cina. Invece di guardare a nord, guardano ad occidente. Il futuro di Hong Kong non è con la Gran Bretagna, la Gran Bretagna è in un serio declino. Perché i giovani di Hong Kong pensano che il loro futuro sia in una sorta di restaurazione con l’occidente? C’è bisogno di un grande cambiamento ad Hong Kong, ed i giovani dovrebbero aprire gli occhi per capire cos’è realmente la Cina“.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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