In occasione dell’anniversario della nascita di Albert Einstein (14 marzo 1879), vi proponiamo questo articolo pubblicato nel maggio del 1949 sul primo numero della rivista Monthly Review: An Independent Socialist Magazine.

È opportuno per uno che non sia un esperto in questioni economiche e sociali esprimere opinioni sul tema del socialismo? Io credo di sì per molte ragioni.
Consideriamo il problema dal punto di vista della conoscenza scientifica. Sembrerebbe che non ci siano fondamentali differenze metodologiche tra l’astronomia e l’economia: in entrambi i campi gli scienziati si sforzano di scoprire leggi di accettabilità generale per un circoscritto gruppo di fenomeni allo scopo di rendere l’interconnessione di questi fenomeni tanto chiaramente comprensibile quanto possibile. Ma in realtà tali differenze metodologiche esistono. La scoperta di leggi generali nel campo dell’economia è resa difficile dalla circostanza che i fenomeni economici osservati spesso sono interessati da vari fattori difficilmente valutabili separatamente. Per di più, l’esperienza che è stata accumulata fin dall’inizio del così detto periodo civilizzato della storia dell’umanità, è stata, come ben si sa, largamente influenzata e limitata da cause che in natura sono ben lungi dall’essere esclusivamente economiche. Per esempio, molti dei maggiori Stati della storia devono la loro esistenza alla conquista. Il popolo conquistatore impose se stesso, legalmente ed economicamente, come classe privilegiata del Paese conquistato. Si impadronì del monopolio della proprietà terriera e nominò un clero tra le sue proprie schiere. I preti, con il controllo dell’educazione, trasformarono la divisione in classi della società in un’ istituzione permanente e crearono un sistema di valori dal quale il popolo, da allora in poi, in larga misura inconsapevolmente, fu guidato nel suo comportamento sociale.
Ma la tradizione storica appartiene, per così dire, al passato. In nessun luogo siamo stati realmente sopraffatti da quel che Thorstein Veblen chiamò la “fase predatoria” dello sviluppo dell’umanità. I fatti economici osservabili appartengono a quella fase e pertanto quelle leggi che possiamo derivare da essi non sono applicabili ad altre fasi. Dal momento che il reale scopo del socialismo è precisamente quello di superare e andare oltre la fase predatoria dello sviluppo umano, la scienza economica nello stato attuale può fare un po’ di luce sulla società socialista del futuro.
In secondo luogo, il socialismo è rivolto verso un fine etico-sociale. La scienza, invece, non può creare obiettivi e ancor meno, inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali ottenere certi fini. Ma gli stessi fini sono concepiti da personalità con alti ideali etici e — se questi fini non sono morti, ma vitali e vigorosi — sono adottati e portati avanti da quei tanti esseri umani che, con parziale consapevolezza, determinano la lenta evoluzione della società.
Per queste ragioni, dovremmo stare in guardia e non sopravalutare la scienza e i metodi scientifici quando si tratta di una questione di problemi umani; e non dovremmo presumere che esperti siano solo coloro che hanno diritto ad esprimersi su questioni concernenti l’organizzazione della società.
Già da qualche tempo innumerevoli voci sono andate affermando che ora la società umana sta attraversando una crisi, che la sua stabilità è stata gravemente compromessa. È caratteristico di una simile situazione che gli individui si mostrino indifferenti o finanche ostili verso il gruppo, piccolo o grande, a cui appartengono. Allo scopo di illustrare il mio pensiero, permettetemi di riportare qui un’esperienza personale. Recentemente discutevo con un uomo intelligente e benevolo sulla minaccia di un’altra guerra che, secondo la mia opinione, avrebbe seriamente compromesso l’esistenza del genere umano, e facevo osservare che solo un’organizzazione soprannaturale avrebbe potuto proteggerlo da quel pericolo. Al che il mio ospite, molto tranquillamente e con disinvoltura, mi disse: “Perché siete così decisamente contrario alla sparizione della razza umana?”.
Sono sicuro che meno di un secolo fa nessuno avrebbe fatto, così facilmente, una dichiarazione del genere. È l’affermazione di un uomo che si è sforzato invano di raggiungere un equilibrio in se stesso e ha più o meno perso la speranza di riuscirvi. È l’espressione di una dolorosa solitudine e di un isolamento da cui tante persone traggono sofferenza al giorno d’oggi. Qual è la causa? C’è una via d’uscita?
È facile sollevare tali questioni, ma è difficile rispondervi con un certo grado di sicurezza. Devo, comunque, provarci come meglio posso, benché sia ben conscio del fatto che i nostri sentimenti e i nostri sforzi sono spesso contraddittori e oscuri e che non possono essere espressi in facili e semplici formule.
L’uomo è, al tempo stesso, un essere solitario e un essere sociale. Come essere solitario, egli cerca di difendere la propria esistenza e quella di coloro che gli sono più vicino, di soddisfare i suoi desideri personali, e di sviluppare le sue capacità innate. Come essere sociale, egli cerca di ottenere il riconoscimento e l’affetto degli esseri umani suoi simili, di condividerne i desideri, di confortarli nei loro dolori, e di migliorarne le condizioni di vita. Solo l’esistenza di questi vari sentimenti, frequentemente in conflitto, formano lo speciale carattere di un uomo, e la loro specifica combinazione determina il punto in cui un individuo può raggiungere un equilibrio interiore e può contribuire al benessere della società. E certamente possibile che la relativa forza di queste due spinte sia, principalmente, stabilita da retaggio. Ma la personalità che alla fine emerge è largamente formata dall’ambiente in cui a un uomo capita di trovarsi durante il suo sviluppo, dalla struttura della società in cui egli cresce, dalla tradizione di quella società, e dalla valutazione di essa di particolari tipi di comportamento. Il concetto astratto di “società” vuol dire per il singolo essere umano la somma totale delle sue relazioni dirette e indirette con i suoi contemporanei e con tutte le persone delle più recenti generazioni. L’individuo è capace di pensare, di sentire, lottare, e lavorare da solo; ma egli dipende così tanto dalla società — nella sua esistenza fisica, intellettuale ed emotiva — che è impossibile pensarlo o capirlo fuori dalla struttura di una società. È la ”società” che fornisce l’uomo di cibo, vestiario, di una casa, degli strumenti di lavoro, di linguaggio, di struttura di pensiero, e della maggior parte dei contenuti del pensiero; la sua vita è resa possibile attraverso il lavoro e le realizzazioni di molti milioni di uomini, passati e presenti che sono tutti nascosti dentro il piccolo mondo “società”.
È evidente, pertanto, che la dipendenza dell’individuo dalla società è un fatto naturale che non può essere abolito — proprio come nel caso di formiche e api. Tuttavia, mentre l’intero processo vitale di formiche e api è determinato nel più piccolo particolare da rigidi istinti ereditari, i modelli sociali e le interdipendenze degli esseri umani sono molto variabili e suscettibili di cambiamento. La memoria, la capacità di creare nuove combinazioni, la dote naturale della comunicazione orale hanno reso possibili sviluppi tra gli esseri umani che non sono dettati da necessità biologiche. Tali sviluppi si manifestano nelle tradizioni, nelle istituzioni, e nelle organizzazioni; nella letteratura; nelle realizzazioni scientifiche e ingegneristiche; in opere d’arte. Questo spiega come accade che, in certo senso, l’uomo può influenzare la sua vita attraverso la propria condotta, e che in questo processo la riflessione e la ricerca consapevoli possono avere un ruolo.
L’uomo acquista alla nascita, a mezzo dell’ereditarietà, una costituzione biologica che dobbiamo ritenere fissa e inalterabile, comprendente i bisogni naturali che sono caratteristici del genere umano. In più, durante il suo arco di vita, egli acquisisce una struttura culturale che trae dalla società attraverso la comunicazione e molti altri tipi di influenze. È questa struttura culturale che, col passare del tempo, è soggetta a cambiamento e che determina in larghissima misura le relazioni tra l’individuo e la società. La moderna antropologia ci ha insegnato, attraverso lo studio comparato delle così dette culture primitive, che il comportamento sociale degli esseri umani può differire notevolmente, in dipendenza dei modelli culturali prevalenti e del tipo di organizzazione che predomina nella società. È su questo che quelli che si sforzano di migliorare il destino dell’uomo possono fondare le loro speranze: gli esser umani non sono condannati, a ragione della loro costituzione biologica, ad annientarsi l’un l’altro o ad essere alla mercé di un destino crudele, causato da loro stessi.
Se ci domandassimo come la struttura della società e l’attitudine culturale dell’uomo dovrebbero essere cambiati allo scopo di rendere la vita umana tanto soddisfacente quanto possibile, dovremmo essere costantemente consapevoli del fatto che ci sono certe condizioni che siamo impossibilitati a modificare. Come detto precedentemente, la natura biologica dell’uomo non è, per motivi del tutto pratici, soggetta a cambiamento. Inoltre, gli sviluppi tecnologici e demografici degli ultimi secoli hanno creato condizioni che permangono all’interno di popolazioni selezionate in modo relativamente numeroso, insieme ai beni indispensabili alla continuazione della loro esistenza, sono assolutamente necessari un’estrema divisione del lavoro e un apparato produttivo estremamente centralizzato. È finita per sempre l’epoca — che, guardando indietro, sembra così idilliaca — in cui gli individui o gruppi relativamente piccoli potevano essere completamente autosufficienti. È solo una superficiale esagerazione dire che il genere umano costituisce ancora ora una comunità planetaria di produzione e consumo.
Sono giunto ora al punto in cui posso indicare brevemente cosa è per me l’essenza della crisi del nostro tempo. Essa concerne le relazioni dell’individuo con la società. L’individuo è divenuto più consapevole che mai della sua dipendenza dalla società. Ma egli non ha esperienza di questa dipendenza come una risorsa positiva, come un legame organico, come una forza protettiva, bensì piuttosto come una minaccia ai suoi diritti naturali, o anche alla sua esistenza economica. Inoltre, la sua posizione nella società è tale che le spinte egoistiche del suo comportamento vengono accentuate costantemente, mentre le sue spinte sociali, che sono di natura più debole, si deteriorano progressivamente. Tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro posizione nella società, soffrono in conseguenza di questo processo di deterioramento. Inconsapevolmente prigionieri del proprio egotismo, si sentono insicuri, isolati, e privati dell’ingenua, semplice e non sofisticata gioia di vivere. L’uomo può trovare significato nella vita, breve e pericolosa che sia, solo dedicandosi alla società.
L’anarchia economica della società capitalista così come è oggi è, secondo la mia opinione, la reale causa del male. Noi ci vediamo prima di tutto come una smisurata comunità di produttori i cui membri cercano incessantemente di privarsi l’un l’altro dei frutti del lavoro collettivo — non con la forza, ma tutto sommato in costante complicità con regole stabilite legalmente. Sotto questo aspetto, è importante capire che i mezzi di produzione — come dire, l’intera capacità produttiva che è necessaria a produrre beni di consumo come pure i beni addizionali del capitale — possono legalmente essere, e per la maggior parte lo sono, proprietà privata degli individui.
A beneficio della semplicità, nella discussione che segue chiamerò “lavoratori” tutti quelli che non partecipano alla proprietà dei mezzi di produzione — quantunque ciò non corrisponda affatto all’uso comune del termine. Il proprietario dei mezzi di produzione è nella posizione di comprare la forza lavoro del lavoratore. Usando i mezzi di produzione, il lavoratore produce nuovi beni che diventano proprietà del capitalista. Il punto essenziale di questo processo è la relazione tra ciò che il lavoratore produce e ciò che gli viene pagato, entrambi misurati in termini di valore reale. Per quanto il contratto di lavoro sia “libero”, ciò che il lavoratore riceve è determinato non dal valore reale dei beni che produce, ma dai propri minimi bisogni e dalla richiesta dei capitalisti di forza lavoro in relazione al numero dei lavoratori in concorrenza per il lavoro. È importante capire che anche nella teoria il pagamento del lavoratore non è determinato dal valore del suo prodotto.
Il capitale privato tende ad essere concentrato in poche mani, in parte a causa della competizione tra i capitalisti e in parte perché lo sviluppo tecnologico e la crescente divisione del lavoro incoraggiano la formazione di più grandi unità di produzione a spese di quelle più piccole. Il risultato di questi sviluppi è un’oligarchia del capitale privato, il cui enorme potere non può effettivamente essere frenato neanche da una società politica democraticamente organizzata. Questo è vero finché i membri dei corpi legislativi sono selezionati da partiti politici, in larga misura finanziati o altrimenti influenzati dai capitalisti privati che, a scopo del tutto pratico, separano l’elettorato dalla legislatura. La conseguenza è quella che i rappresentanti del popolo di fatto non proteggono sufficientemente gli interessi dei settori della popolazione sottoposti ad altrui privilegi. Inoltre, nelle condizioni esistenti, i capitalisti privati controllano inevitabilmente, direttamente o indirettamente le principali fonti di informazione (stampa, radio, educazione). E’ davvero estremamente difficile, e anzi nella maggior parte dei casi assolutamente impossibile, per il singolo cittadino giungere a conclusioni obiettive e fare uso intelligente dei suoi diritti politici.
La situazione prevalente in una economia basata sulla proprietà privata del capitale è così caratterizzata da due principi fondamentali: primo, i mezzi di produzione (capitale) sono posseduti privatamente e i proprietari ne dispongono come credono opportuno; secondo, il contratto di lavoro è libero. Di certo, non esiste una società capitalista pura in questo senso. In particolare, si dovrebbe osservare che i lavoratori, attraverso lunghe e amare lotte politiche, sono riusciti ad assicurare per certe categorie di lavoratori una forma in qualche modo migliorata del “libero contratto di lavoro”. Ma, considerata nel complesso, l’economia al giorno d’oggi non differisce molto dal capitalismo “puro”.
La produzione è portata avanti per profitto, non per utilità. Non c’è alcuna garanzia che tutti coloro che sono abili disponibili al lavoro saranno sempre in condizione di trovare un impiego; un esercito di disoccupati esiste in permanenza. Il lavoratore ha costantemente paura di perdere il suo lavoro. Nel momento in cui lavoratori disoccupati e malpagati non consentono un mercato capace di dare profitti, la produzione dei beni di consumo si contrae, e la conseguenza è una grande miseria. Il progresso tecnologico spesso si risolve in una maggiore disoccupazione piuttosto che in un alleggerimento del fardello del lavoro per tutti. L’obiettivo del profitto, insieme con la competizione tra i capitalisti, è responsabile di un’instabilità nell’accumulazione e nell’utilizzazione del capitale che conduce ad una crescente dura depressione. La competizione illimitata porta ad un enorme spreco di lavoro, e a quell’azzoppamento della coscienza sociale degli individui che ho menzionato prima.
Considero questa ridotta capacità degli individui il male peggiore del capitalismo. L’intero nostro sistema educativo soffre di questo male. Una esagerata attitudine alla competizione viene inculcata nello studente, che è addestrato ad avere il culto del successo e ad essere avido di guadagno come preparazione per la sua futura carriera.
Sono convinto che esista solo una strada per eliminare questi gravi mali, vale a dire attraverso l’affermazione di una economia socialista, accompagnata da un sistema educativo che dovrebbe essere orientato a fini sociali. In una siffatta economia, i mezzi di produzione sono posseduti dalla stessa società e utilizzati in modo pianificato. Un’economia pianificata che adattasse la produzione ai bisogni della comunità, distribuirebbe il lavoro da fare tra tutti coloro che sono abili al lavoro e garantirebbe i mezzi di sussistenza a ogni uomo, donna e bambino. L’educazione dell’individuo, in aggiunta al favorire le sue proprie capacità innate, tenderebbe a sviluppare in lui un senso di responsabilità per i suoi simili in luogo della glorificazione del potere e del successo nella nostra attuale società.
Tuttavia, è necessario ricordare che una economia pianificata non è ancora socialismo. Un’economia pianificata come tale può essere accompagnata dal completo asservimento dell’individuo. Il conseguimento del socialismo richiede la soluzione di alcuni problemi socio-politici estremamente difficili: come è possibile, in vista dell’ampia centralizzazione di potere politico ed economico, impedire alla burocrazia di divenire onnipotente e arrogante? Come possono i diritti dell’individuo essere protetti e insieme come può essere assicurato un democratico contrappeso al potere della burocrazia?
La chiarezza circa i problemi del socialismo è di grandissimo significato nella nostra epoca di transizione. Dal momento che, nelle attuali circostanze, una discussione libera senza impedimenti di questi problemi è soggetta ad un potente tabù, considero la fondazione di questa rivista un importante servizio pubblico.
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