Ma perché dovremmo votare nelle prossime elezioni europee?

Non votando per le elezioni europee dobbiamo esprimere tutta la nostra sfiducia nella sua classe dirigente, animata da un delirante spirito bellicista, e nell’Unione, sorta dal disegno usa di recuperare i 23 milioni di chilometri quadrati prima dominati dal socialismo est-europeo e sottratti al mercato capitalistico.

A breve ci saranno le elezioni europee e sembra che i risultati non saranno poi così sconvolgenti; alcuni si augurano che l’astensione dal voto, segno del ripudio dell’Unione e delle sue disastrose politiche, si attesti solo al 40%.

Dai recenti sondaggi si ricava che Fratelli d’Italia perderà due punti di percentuale e si attesterà al 26,5%; con un piccolo calo il Pd raggiungerà il 22,5%, stessa situazione per il Movimento 5 Stelle, che probabilmente conquisterà il 15,4% dell’elettorato. Il suo leader, G. Conte, insieme a Santoro, ha dichiarato che non ritiene opportuno mettere al bando la Nato. Forza Italia in lieve crescita, con Noi Moderati, conseguirà il 9,2% dei voti.

Raggruppamenti come Alleanza Verdi Sinistra e Stati Uniti d’Europa dell’intramontabile Bonino forse riusciranno a superare la soglia del 4% ed entrare in un Parlamento dai poteri estremamente limitati. Forse il povero Santoro, ospite fisso di molte trasmissioni televisive, per far vedere che in Europa ci sono anche i “buoni”, si limiterà a raggiungere il 2%. Tanta fatica per nulla, da cui si ricava che l’improvvisazione, aggiunta ad un eccessivo amor di sé, porta poco lontano.

A mio parere personale, la partecipazione alle elezioni una scelta tattica e non strategica, e stante la situazione difficile dell’opposizione in Europa e nel nostro paese, ci si dovrebbe astenere dal voto e boicottarlo; linea adottata da altri gruppi comunisti europei, il cui scopo è quello di esprimere tutta la nostra sfiducia non solo nell’attuale classe dirigente, ma anche nello stesso organismo di cui fa parte presentato in maniera mistificatoria alla gente comune.

Diciamo allora due parole sull’Unione europea. Già sul nostro giornale sono uscite analisi puntuali della natura antipopolare e imperialistica della stessa, mi limito ad aggiungere qualche altro elemento.

Secondo la storica francese Annie Lacroix Riz, autrice di numerosi volumi di storia contemporanea mai pubblicati in italiano, le origini di quello che lei chiama le carcan européen (la gogna europea) risale al primo dopoguerra, quando si costituì nel 1926 il cartello dell’acciaio, voluto da industriali e finanzieri europei e statunitensi per ampliare i mercati e per definire le quote spettanti a ciascun paese. Invece, gli europeisti le fanno risalire al 1950, nel momento in cui Robert Schuman, cittadino tedesco e poi divenuto francese, quando nel 1918 l’Alsazia-Lorena passò dalla Germania alla Francia, addirittura beatificato dalla Chiesa cattolica, pronunciò il suo famoso discorso, rivendicando la funzione pacificatrice dell’Europa.

La nostra storica scrive che, dallo studio degli archivi risulta che, sin da prima della Prima guerra mondiale, si erano sviluppati rapporti profondi tra le industrie, le banche francesi e tedesche soprattutto nel campo della siderurgia. Dopo la guerra le varie potenze europee si riconciliano e le alleanze precedenti si ricompongono (come scrive Trilussa nella nota Ninna nanna)1: il cartello dell’acciaio, che riunisce Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, sarà seguito nel 1927 da quello chimico. Tutti settori strettamente legati alle attività belliche.

Dato che la Germania, sin da quell’epoca, era divenuta il vassallo degli Usa, la Francia rinuncia ben presto all’applicazione del Trattato di Versailles e, dopo l’inutile occupazione della Ruhr (dal 1923 al 1925) insieme al Belgio per i mancati pagamenti tedeschi delle riparazioni, accetta quanto deciso dalla Commissione Dawes, che rivede i punti più lesivi del Trattato di Versailles. Come è stato notato, il processo di cartellizzazione ha favorito la Germania, che sin dagli anni Venti ha cominciato a riarmarsi con la complicità non solo degli Usa, ma anche della Francia perché per i banchieri di questi paesi era molto redditizio fare prestiti al paese centroeuropeo.

Come fanno gli europeisti, qualcuno potrebbe sostenere che la collaborazione economica e finanziaria sia un buon strumento per evitare i conflitti; invece, come mostra la storia conosciuta, produce tutto il contrario: dispute per l’accaparramento dei mercati, per la loro divisione, per l’acquisizione delle risorse e quindi essa finisce con lo spingere i volenterosi collaboratori verso scontri sempre più feroci.

Sempre secondo la studiosa francese, alla fine degli anni Trenta, i tedeschi dominano il 60% dei mercati, grazie anche al fatto che sono proprio i francesi che vendono loro il minerale di ferro. Con il Trattato di Locarno (1925), che stabilisce però solo i confini occidentali, si stabilizza la pace solo teorica, giacché i conflitti non mancano e gli Usa intendono imporre un mercato del tutto aperto alle loro merci e ai loro capitali. Fatto sancito dagli accordi di Bretton Wood (1944) che fanno del dollaro la moneta degli scambi internazionali, decisione che fa saltare il precedente regime fondato sugli scambi di materie prime dall’oriente europeo e manufatti dall’occidente. Regime durato in parte sino ai nostri giorni e distrutto dagli Usa con l’acquiescenza dei vassalli europei.

Le cose si fanno più chiare con il Piano Marshall (1947) e con la cancellazione degli accordi di Yalta, di Postdam, con il riarmo della Germania, inquadrata nella Nato, con il sostegno statunitense anche alle sue industrie. Il discorso di Schuman del 1950, che presenta l’Europa quale strumento di pace tra le nazioni, lacerate dalla trentennale guerra civile europea, è utile a far ingoiare agli europei, in primis ai francesi, il ribaltamento della precedente prospettiva in nome di un’unione, guidata dalla Germania, nuovo argine contro il pericoloso comunismo sovietico2.

Ma vi è un altro aspetto ugualmente importante su cui occorre riflettere e che ci spinge a rifiutare ogni illusoria proposta non solo di sostenere l’Ue, ma anche di riformarla, trasformandola in un’ipotetica Unione dei popoli, che avrebbe tutt’altri fondamenti da quelli appena descritti.

L’Unione economica e monetaria nasce con il trattato di Maastricht ed è partorita dai processi di centralizzazione dei capitali cui si faceva cenno. Questo trattato ha fondato un sistema economico e sociale sovranazionale basato sui principi del capitalismo neoliberale: mercato senza restrizioni, espansione del capitale europeo all’estero, delocalizzazione delle industrie dove risorse e manodopera sono meno cari, settore pubblico sottomesso alle esigenze del mercato, moneta non sottoposta alle decisioni dei governi. Nessun paese può sottrarsi al rispetto di queste regole e alle decisioni della Bce governata da tecnocrati che nessuno ha mai eletto, ammesso che nel continente si pratichino elezioni democratiche. Viene creato così un ampio spazio, omogeneo anche politicamente e militarmente per la sua sottomissione alla Nato (ora con qualche crepa), in cui si sviluppano i profitti a danno soprattutto del costo del lavoro e del salario indiretto (i servizi sociali ormai smantellati), sostenendo che tutto ciò va a vantaggio della competitività. Questo processo ha comportato inevitabilmente l’incremento dello sfruttamento e della precarietà lavorativa fino a forme di vero e proprio lavoro schiavile e non solo fuori della civile Europa.

Naturalmente il processo di centralizzazione, ben descritto già da Marx, non ha riguardato solo il capitale europeo; infatti, negli ultimi decenni abbiamo assistito alla sempre più spinta concentrazione nel mondo di grandi gruppi industriali e finanziari transnazionali, cominciata alla fine dell’Ottocento, che hanno dato vita a istituzioni internazionali, come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio etc., le cui decisioni vanno a tutto loro vantaggio, avviando quel processo di polarizzazione della popolazione mondiale, divisa tra una minoranza ultramiliardaria e una maggioranza lacera e sempre più affamata, e non solo nei paesi a capitalismo avanzato3.

Non si farà qui riferimento alle politiche bellicistiche dell’Ue, più volte analizzate e ripudiate nel nostro giornale, ma alla questione della relazione tra i Trattati europei e le costituzioni nazionali, notando che essa non possiede una costituzione vera e propria, perché bocciata dai referendum che si sono potuti celebrare (2005). Infatti, ci interessa mostrare che questa relazione, interpretata in maniera diversa dai giuristi, di fatto deve esser collocata nel quadro della centralizzazione del capitale che mette in questione la stessa esistenza degli Stati nazionali, le cui norme vengono scavalcate dagli accordi internazionali stipulati da personaggi non rappresentativi delle istanze popolari.

Alcuni sostengono che, in virtù dell’articolo 11 della nostra Costituzione, in cui si dice che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, il nostro paese (o meglio i nostri governanti) hanno accettato tali limitazioni. Pertanto, la nostra costituzione sarebbe subordinata ai trattati. Di diverso parere sono invece altri giuristi, per i quali le norme dell’Ue hanno prevalenza sulle norme nazionali, solo se non contrarie alla costituzione di un paese che è prevalente su tutto e ciò In mancanza di una costituzione europea. Infatti, in varie occasioni le corti costituzionali di alcuni Stati hanno sollevato eccezioni su determinate norme europee che hanno dovuto essere abolite o modificate. E questo fatto -mi pare- dimostra che la ragione sta dalla parte di questi ultimi.

Entrando nei problemi concreti, occorre osservare che, nonostante la riconosciuta prevalenza delle norme nazionali, di fatto generalmente gli Stati nazionali non sono in grado di porre sotto controllo le grandi corporazioni, europee e non, che – come scriveva Z. Brzezinski già nel 1968 indeboliscono gli organismi statuali – hanno tessuto una straordinaria rete internazionale per garantire i loro interessi, istituendo anche entità private di consultazione come la Trilateral Commission e il Forum di Davos. Naturalmente il potere negoziale degli Stati non è comparabile a quello degli investitori stranieri, i quali sono favoriti dai trattati internazionali, come quelli europei, sono agevolati da contratti di investimento loro propizi e si rivolgono ai tribunali esteri in caso di conflitti con lo Stato ospitante. Ne consegue che gli Stati non hanno il potere di imporre leggi ambientali e sociali più severe, né di difendere in maniera efficace i diritti delle popolazioni4. Concludendo, ripudiamo l’Ue per questo suo carattere imperialistico, che mette al di sopra di tutto il vantaggio di una sparuta minoranza a detrimento della maggioranza rappresentata dai lavoratori, autoctoni o immigrati. Inoltre, è del tutto condannabile la sua virata militarista, che la conduce a non sostenere i negoziati di pace tra Ucraina e Russia e ad assistere silente al massacro quotidiano dei palestinesi, prospettando addirittura un suo potenziamento militare, dal quale potrebbero scaturire nuovi imprevedibili conflitti.

Note:

1 Nel 1914, riferendosi ai monarchi europei, Trilussa scrive: “Fa la ninna, cocco bello, / finché dura ’sto macello, / fa la ninna, che domani / rivedremo li sovrani / che se scambieno la stima, / boni amichi come prima; / so’ cuggini, e fra parenti / nun se fanno complimenti! / Torneranno più cordiali / li rapporti personali / e, riuniti infra de loro, / senza l’ombra de un rimorso, / ce faranno un ber discorso / su la Pace e sur lavoro / pe’ quer popolo cojone / risparmiato dar cannone”.

2 Si veda Angelique Schaller, Annie Lacroix-Riz : «La fable d’une Europe construite pour la paix viole les faits historiques», La Marsellaise.

3 Si veda Trini Busqueta Franco e Manel Busqueta Franco, La Unión Europea y la Globalización Capitalista, Ecologistas en acción.

4 Si veda Un’effettiva regolazione delle multinazionali tra Stato ospite e Stato d’origine risulta essere ostacolata da numerosi impedimenti giuridici e politici, DirittoConsenso.

Articolo pubblicato su futurasocieta.com

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About Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell'Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell'università.

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