Che fare? Quali sono i fattori favorevoli e sfavorevoli allo sviluppo del socialismo

Marx ed Engels sostenevano che il socialismo richiede un alto sviluppo economico capitalista. Tuttavia, nonostante la crescita della produzione capitalistica, il movimento socialista odierno è debole. È fondamentale esplorare perché, e cosa fare oggi per rifondare un movimento socialista.

Secondo Marx ed Engels il socialismo – come fase intermedia tra capitalismo e comunismo – può affermarsi soltanto in virtù di un alto sviluppo economico del capitalismo che crei la base materiale per la sua instaurazione. Senza questo sviluppo, non si potrebbe procedere all’abbattimento della proprietà privata dei mezzi di produzione e alla affermazione della proprietà collettiva. Oggi siamo arrivati a una crescita immane della produzione capitalistica, grazie allo sviluppo esponenziale della scienza e della tecnologia. Nonostante ciò il movimento socialista, nei paesi dell’Occidente capitalista e avanzato, non è mai stato così debole e arretrato. Sorge a questo punto una domanda che non può essere elusa: perché, a fronte del prodursi delle condizioni oggettive della rivoluzione, la coscienza e l’organizzazione delle classi lavoratrici che dovrebbe guidarla è così poco diffusa? L’altra domanda che, giocoforza, dovremmo porci è la seguente: oggi nelle condizioni date che cosa possiamo fare?

Rispondere a queste domande è fondamentale ma è anche molto difficile, e sicuramente qui non possiamo che limitarci, in modo molto parziale, ad avviare il discorso, tracciando delle direttrici di interpretazione della realtà sociale attuale e quindi delle condizioni di realizzazione del socialismo. Per iniziare suddividerei la questione in quattro sezioni, premettendo, però, che l’analisi si incentrerà soprattutto sui Paesi occidentali e in particolare sull’Europa e sull’Italia e tratterà solo di sfuggita le condizioni dell’immensa periferia e semiperiferia del cosiddetto Sud-globale, dove le condizioni sono diverse e meritano una trattazione a parte.

Per comodità di analisi distingueremo tra fattori oggettivi, relativi alle condizioni strutturali, economiche e sociali, e i fattori soggettivi, relativi alle condizioni sovrastrutturali cioè allo sviluppo della coscienza e dell’organizzazione della classe lavoratrice. Le sezioni sono le quattro seguenti: a) I fattori oggettivi favorevoli allo sviluppo del socialismo; b) i fattori oggettivi sfavorevoli allo sviluppo del socialismo; c) i fattori soggettivi sfavorevoli allo sviluppo del socialismo; e, infine, c) il Che fare? cioè cosa possiamo fare, soggettivamente, per rifondare un movimento per il socialismo.

  1. Fattori oggettivi favorevoli

Bisogna partire dal concetto che il capitalismo dei paesi centrali (l’Occidente collettivo) è in crisi dal 2007-2008, cioè dalla crisi cosiddetta dei mutui subprime. La crisi tuttavia non è stata creata dai mutui o dal debito pubblico, o dal Covid, o dalle molte cause contingenti che di volta in volta si offrono all’attenzione dei commentatori. La crisi è strutturale e va fatta risalire alla caduta tendenziale del saggio di profitto, che a sua volta è la manifestazione della contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. La crisi è stata così forte che solo l’intervento massiccio dello Stato, a dispetto della vulgata neoliberista di “meno stato e più mercato”, ha potuto tamponare la crisi. Basti ricordare che negli Usa l’amministrazione Biden ha varato recentemente, con l’Inflation Reduction Act, aiuti alle industrie per oltre 600 miliardi di dollari. I fondi non andranno alle imprese estere ma solo alle imprese di proprietà statunitense o che producono negli Usa e si accompagneranno all’adozione di dazi all’importazione e di misure contro l’esportazione di tecnologie sofisticate a paesi concorrenti, come la Cina riguardo ai chip.

Fattore fondamentale è lo sviluppo delle forze produttive, vale a dire l’aumento della capacità produttiva del lavoro umano grazie all’applicazione tecnologica delle conquiste scientifiche. L’aumento dell’accumulazione di capitale è collegato non solo, come abbiamo detto, alla caduta del saggio di profitto ma anche a due altri fattori fondamentali ai fini del nostro discorso: la concentrazione e la centralizzazione del capitale, che si traducono in un aumento delle dimensioni medie delle imprese capitalistiche. La concentrazione si ha quando, attraverso cicli di produzione successivi, aumenta la dimensione del capitale investito in una data impresa. La centralizzazione si ha, invece, quando l’aumento dimensionale dell’azienda è raggiunto attraverso l’inglobamento in essa di altre aziende, attraverso acquisizioni di imprese più piccole e meno competitive o fusioni tra imprese di dimensioni analoghe per creare dei colossi internazionali.

La centralizzazione dei capitali è importante perché pone le basi del socialismo. Il socialismo è, infatti, la centralizzazione della produzione nelle mani della collettività attraverso lo Stato. Marx, a questo proposito, dice in un passaggio famoso del XXIV capitolo del I libro del Capitale che l’espropriazione dei capitali più piccoli da parte delle imprese più grandi pone le basi per l’espropriazione degli espropriatori e con essa le basi per il socialismo. Così, infatti, scrive Marx:

“La trasformazione della proprietà privata e suddivisa che si basa sul lavoro personale degli individui in proprietà capitalistica è senza dubbio un processo incomparabilmente più lungo, più travagliato e più difficile della trasformazione della proprietà capitalistica, che già si basa in pratica sull’andamento sociale della produzione, in proprietà sociale. Là si trattava dell’espropriazione delle masse popolari da parte di pochi usurpatori, qui si tratta dell’espropriazione di pochi usurpatori da parte delle masse.”[i]

Un esempio del grado elevato di centralizzazione cui è giunto il capitalismo attuale è la recente fusione tra la Fiat e Peugeot-Citroen. La Fiat, pur essendo una grande multinazionale e sebbene avesse assorbito il terzo produttore statunitense, Chrysler, non aveva ancora le dimensioni adeguate per competere sul mercato mondiale. La fusione tra i due produttori europei ha dato vita al colosso Stellantis che è il quinto gruppo dell’auto mondiale. Appare, quindi, evidente che l’altissimo grado di centralizzazione cui si è giunti rende enormemente più facile l’eventuale ed ulteriore socializzazione dei mezzi di produzione nelle mani della maggioranza della popolazione attraverso lo Stato, intendendo per Stato, però, lo Stato dei lavoratori e non lo Stato attuale, fondamentalmente subalterno alle élites capitalistiche.

Un altro fattore che faciliterebbe il socialismo è la mondializzazione, cioè la creazione del mercato mondiale, che di fatto si è realizzata negli ultimi decenni, inglobando nel mercato capitalistico la Cina e tutta una serie di Paesi cosiddetti emergenti.  Il comunismo, per Marx, necessita che la storia diventi storia universale, cioè che si fondi su relazioni tra individui empiricamente universali. Ciò comporta che quello che fanno individui posti in una parte del mondo abbia concretamente influenza su quanto avviene nella vita degli individui che vivono nelle altre parti del mondo. Quindi, la base delle relazioni empiriche tra gli esseri umani a livello mondiale e di conseguenza di una vera storia mondiale, che emancipa gli uomini dalla storia locale, non può che essere il mercato mondiale. Collegata allo sviluppo universale delle forze produttive, la storia universale “…è un presupposto assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario (…) senza di che 1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali (…) ,3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale.”[ii]

Infine, l’ultimo fattore che faciliterebbe il socialismo è la polarizzazione sociale, cioè lo scindersi della popolazione in una maggioranza sempre più povera e in una minoranza sempre più ricca. Oggi stiamo assistendo proprio a questo fenomeno, come possiamo osservare dagli indicatori Istat della povertà assoluta e del rischio di povertà. Mentre un tempo i poveri erano essenzialmente quelli che non avevano lavoro oggi si è creato il fenomeno dei working poors, i poveri che lavorano. Tra 2014 e 2023, in Italia l’incidenza della povertà assoluta individuale tra gli occupati ha avuto un incremento di 2,7 punti percentuali, passando da poco meno del 9% al 14,6%. Per quanto riguarda l’indicatore del rischio di povertà, la quota di occupati a rischio povertà è aumentata dal 9,5% del 2010 all’11,5% del 2022[iii]. La povertà, maggiormente presente fra gli immigrati, dipende – sempre secondo l’Istat – non tanto dal salario orario quanto dalla durata e intensità del rapporto di lavoro, come nel caso del part-time involontario. A fonte dell’impoverimento dei lavoratori salariati, si registra un aumento della ricchezza dello strato superiore della società. Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis guadagna 758 volte lo stipendio medio di un operaio Fiat. Gli stipendi dei primi top manager italiani nel 1980 erano 45 volte lo stipendio medio annuo di un operaio, nel 2008 416 volte e nel 2020 649 volte[iv].

  1. Fattori oggettivi sfavorevoli

Quanto detto fino ad ora e quanto diremo da qui in poi va inteso dialetticamente. Ciò significa che si tratta di tendenze, di processi che possono essere rallentati o annullati da altri processi e tendenze.

Il più importante fattore oggettivo che rende più difficile lo sviluppo di un movimento per il socialismo è lo stato di grande frammentazione in cui è ridotta la classe lavoratrice. Oggi i lavoratori sono suddivisi in primo luogo dal punto di vista fisico. La produzione è dispersa in vari siti produttivi più piccoli e con meno addetti di quelli del passato. In particolare, la delocalizzazione fa sì che si creino divisioni per confini nazionali all’interno di una medesima impresa e di una specifica produzione settoriale. Ricollegare lavoratori di Paesi diversi e lontani è certamente un’opera molto più difficile che mettere insieme lavoratori di uno stesso paese con contratti simili e soprattutto con la stessa lingua. Invece, a livello nazionale, un’altra suddivisione dei lavoratori è quella contrattuale: all’interno di uno stesso luogo di lavoro abbiamo lavoratori a tempo indeterminato, a tempo determinato, interinali, consulenti, stagisti, ecc. con una varietà contrattuale che rende difficile la ricomposizione. Non solo ma sempre all’interno dello stesso luogo, grazie all’esternalizzazione, abbiamo lavoratori dipendenti da altre imprese esterne che lavorano fianco a fianco a lavoratori dipendenti diretti dell’impresa in questione. Ad esempio si danno casi come quello di una ditta che ha alla catena di montaggio occupati diretti, mentre alla logistica interna, che provvede alla movimentazione dei prodotti finiti e dei semilavorati, ha occupati dipendenti da una ditta esterna. Inoltre, altro fattore di frammentazione è quello etnico, ossia la presenza sempre più massiccia di lavoratori immigrati, che entrano in concorrenza con i lavoratori autoctoni.

Infine, la Ue e l’euro hanno prodotto un ulteriore frammentazione tra popoli (e tra classi lavoratrici), mettendo da una parte i “virtuosi” che non fanno debito e dall’altra gli “spendaccioni” (secondo la retorica di certi commentatori) che vivono di debiti. Ad esempio nel corso della crisi greca, che ha colpito soprattutto la classe lavoratrice, non si è registrata alcuna solidarietà da parte delle classi lavoratrici di altri Paesi, specialmente di quelle del Nord Europa. È evidente che tutte queste divisioni debbano essere combattute per arrivare alla ricomposizione, almeno e prima di tutto sul piano economico, della classe lavoratrice. Ma la realtà degli ultimi anni ci dice che una tale ricomposizione, sia a livello nazionale sia – ancor di più – a livello sovrannazionale è un lavoro che è così difficile a farsi da non essere stato neanche iniziato.

Un altro fattore che ostacola la formazione di una tendenza verso il socialismo è la permanenza di settori intermedi tra capitalisti e salariati, piccoli padroni, piccoli commercianti, professionisti, lavoratori autonomi. Un altro importante settore intermedio, tra capitalisti e salariati produttivi di plusvalore, è quello del lavoro statale, che gode di maggiori garanzie rispetto al privato e, che, non a caso, in Italia è un bacino elettorale del Pd. Tutti questi settori spesso esprimono posizioni antitetiche al socialismo e rappresentano la base elettorale di partiti pro-capitalismo sia di destra sia di “sinistra”. Sebbene la crisi tenda a erodere questi settori intermedi della società il loro numero è ancora elevato, specie in Italia. Nonostante la crisi del Covid tra 2018 e 2023 abbia ridotto il loro numero di 225mila unità, nel 2023, a fronte di circa 18,23 milioni di lavoratori dipendenti, c’erano 4,38 milioni di lavoratori autonomi. Fra l’altro a ridursi sono stati gli autonomi senza dipendenti che sono passati da 3,33 milioni a poco più di 3 milioni, mentre quelli con dipendenti sono saliti da 1,27 milioni a 1,32 milioni[v].

Infine, altro fattore oggettivo di ostacolo alla diffusione di una tendenza verso il socialismo è, come ha ricordato più volte Lenin, la creazione dell’aristocrazia proletaria, ossia la creazione di uno strato privilegiato di lavoratori salariati il cui assenso verso il sistema capitalistico viene “comprato” grazie allo sfruttamento dei Paesi periferici e dipendenti dell’economia capitalistica. I salari più alti di questi lavoratori sono il frutto della rapina portata avanti dall’Imperialismo.

  1. Fattori soggettivi sfavorevoli

Tra i fattori soggettivi sfavorevoli allo sviluppo di una tendenza socialista e all’affermazione di una forza comunista il più importante è sicuramente la sconfitta epocale data dal crollo dell’Urss e l’affermazione generalizzata di un giudizio su quel sistema come improntato alla miseria e all’oppressione. Non che queste tendenze ideologiche non fossero diffuse prima, ma, dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Urss nel 1991, l’ideologia borghese dominante, favorita da mass media particolarmente potenti e pervasivi, ha bollato definitivamente l’esperienza dell’Urss e dei paesi socialisti dell’Europa dell’Est come totalmente fallimentare. E con essa ha emesso un giudizio di fallimento sul socialismo tout court. Si può dire che il socialismo come sistema fallimentare è divenuto in Occidente (altrove è un po’ diverso) senso comune diffuso a livello di massa. È del tutto evidente che qualunque organizzazione o lista politica elettorale si presenti come comunista è gravata dal peso schiacciante di una storia riscritta dai vincitori. Questo è anche un grosso ostacolo alla diffusione, in genere, di una qualsiasi critica al sistema capitalistico. Infatti, proprio oggi in cui anche il liberalismo (ossia il capitalismo nella forma estrema che si è affermata negli ultimi decenni) appare aver fallito, manca, grazie al giudizio negativo sull’Urss, la capacità di prospettare una alternativa di sistema e così il capitalismo rimane nel senso comune il sistema “meno peggiore” con cui gestire l’economia e la società. È anche per questa ragione che le forze politiche critiche dello stato di cose presenti, che pure emergono ogni tanto, rimangono sulla superfice dei problemi e non riescono ad andare alla radice, cioè al fondamento capitalista della situazione attuale. Però, la paura per il possibile porsi di una alternativa di sistema è talmente forte tra l’élite capitalistica che i mass media non perdono occasione, ancora oggi a distanza di quasi trentacinque anni dalla fine dell’Urss, per dipingerne la storia come una sequela di fallimenti economici e di massacri di massa e i suoi dirigenti come criminali sanguinari.

Un altro fattore sfavorevole allo sviluppo di una tendenza socialista e strettamente legato alla critica all’Urss è lo smantellamento del marxismo come sistema di pensiero critico. Per la verità da sempre il marxismo viene definito come un pensiero ciclicamente in crisi dall’Ideologia dominante. Ma dopo la fine dell’Urss anche il marxismo ha subito un colpo duro e oggi è appannaggio di gruppi ristretti di intellettuali, che hanno pochi legami di massa. La fine dell’Urss ha dato la stura a tutta una retorica sulla fine delle ideologie, che aveva come obiettivo l’affermazione di un’unica ideologia, quella neoliberista. Per questa ragione non solo il marxismo ma anche il pensiero critico borghese è stato espunto dalle università e dal dibattito culturale.

Un terzo fattore soggettivo è la cosiddetta governabilità, ossia il concetto che la democrazia deve essere sottoposta a limiti per garantire il governo della realtà sociale e economica da parte delle élites capitalistiche. L’offensiva basata sul concetto di governabilità ha origine negli anni ’70, quando tra i circoli intellettuali del capitalismo occidentale si afferma l’idea che la democrazia è in crisi perché ce ne è troppa, visto che le lotte di massa e il confronto sistemico con l’Urss avevano determinato l’affermazione di un forte stato sociale o welfare e modificato i rapporti di forza a favore della classe salariata. La governabilità consta di quattro elementi. Il primo è costituito dai sistemi elettorali maggioritari (e dalle soglie di sbarramento) che permettono alle elites di annullare la forza dei partiti di classe o bloccarne lo sviluppo sul nascere. Il secondo è rappresentato dalla distruzione dei partiti di riferimento della classe lavoratrice per sostituirli con partiti “leggeri” che non hanno alcun pensiero “forte” e che, tendendo a convergere tutti al centro, si trasformano in partiti le cui differenze non riguardano più i rapporti fra classi ma la difesa di minoranze del tutto compatibili con il sistema capitalistico. Il terzo è il prevalere dell’esecutivo, ossia del governo, sul legislativo, ossia sul parlamento. Oggi le leggi vengono fatte molto più dai governi con la decretazione di urgenza che dal parlamento. Il quarto, infine, è la conseguenza di quanto affermato fino a qui e cioè la creazione di una apatia generalizzata verso la politica specie tra le classi subalterne, che sfocia in tassi di astensionismo che stanno arrivando alla metà del corpo elettorale. Il passaggio dalla coscienza di classe all’apatia verso la politica è il risultato finale e certo rappresenta il fattore più sfavorevole all’affermazione di un movimento per il socialismo.

Un altro fattore soggettivo, che, peraltro, è sempre legato al concetto di governabilità, è rappresentato dai trattati internazionali. Tali trattati, in particolare quelli che hanno dato vita alla Ue, all’euro e alla Nato, rappresentano delle gabbie che annullano la sovranità dei parlamenti nazionali e impediscono sul nascere a ogni movimento che tenda verso la critica di sistema (e quindi a partire dal movimento per il socialismo) di svilupparsi. Il patto di stabilità della Ue rappresenta una gabbia che impedisce politiche sociali e espansive. L’euro determina la riduzione dei salari come scelta politica tendente a privilegiare le esportazioni sulle importazioni. Infine la Nato lega i paesi che vi fanno parte a una politica aggressiva e guerrafondaia. Grazie a queste organizzazioni internazionali viene pregiudicata ogni politica interna e internazionale autonoma e quindi anche un eventuale sviluppo del socialismo. Infatti, come è possibile far passare a livello di massa una politica di riforme socialiste in presenza dei vincoli del Patto di stabilità?

Infine, ci sono altri due fattori soggettivi che rappresentano un ostacolo allo sviluppo di una tendenza verso il socialismo: la collaborazione dei sindacati tradizionali e la frammentazione e impreparazione delle forze antagoniste e comuniste. I sindacati hanno svolto un ruolo concertativo con la controparte padronale e con il governo contribuendo ad avallare le controriforme che hanno portato alla frammentazione della classe lavoratrice di cui abbiamo detto sopra. La ricostruzione di un movimento per il socialismo è, infine, ostacolata dalla frammentazione delle forze antagoniste che è un prodotto della sconfitta epocale del socialismo e dello smantellamento del marxismo.

  1. Che fare?

Da quanto abbiamo detto si possono ricavare alcune indicazioni di massima per i Paesi a capitalismo avanzato dell’Occidente, che possono essere suddivise nei seguenti sei punti.

a) Dal momento che il fallimento economico dell’Urss e la condanna dell’esperienza del socialismo realizzato è il più grande ostacolo alla rinascita di un movimento per il socialismo, va fatto un lavoro di analisi dell’esperienza del comunismo novecentesco che contrasti la riscrittura della storia fatta dai vincitori. Per farlo, bisogna sfatare alcuni falsi miti che si sono imposti nel corso degli ultimi decenni. Il primo è quello del fallimento economico dell’Urss. La storia dell’Urss è, al contrario un caso di successo economico. Per valutarlo, dobbiamo considerare che la Russia, prima della rivoluzione, era un Paese economicamente arretrato in cui lo sviluppo delle forze produttive era ancora limitato. Il Paese era eminentemente contadino e basato sull’agricoltura. Nonostante questo, il socialismo – e in particolare la pianificazione centralizzata – è riuscito a trasformare in poco tempo la Russia in un Paese industrializzato e moderno, consentendogli fra l’altro di disporre di una infrastruttura produttiva che gli ha permesso di affrontare e sconfiggere la macchina bellica tedesca. Gli impressionanti tassi di crescita durante i primi tre piani quinquennali (1928-1940) sono particolarmente notevoli dato che questo periodo corrisponde nei principali Paese sviluppati (Usa e Europa occidentale) alla Grande depressione degli anni ’30. La misura del successo economico è data anche dal fatto che l’Urss è la seconda economia mondiale dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni ’80. Nel 1970, ad esempio, l’Urss deteneva il 12,7% del Pil mondiale, mentre la Germania, al terzo posto nella classifica del Pil, deteneva il 6,3% e il Giappone, al quarto posto, il 6,2%[vi]. Per valutare pienamente il dato, bisogna pensare che la Russia è oggi appena all’undicesimo posto per Pil fra le economie mondiali.

Un altro mito da sfatare è quello delle decine di milioni di morti che il comunismo avrebbe provocato in Russia. Infatti, se guardiamo la serie storica della demografia dell’Urss vediamo che l’unico calo della popolazione avviene tra il giugno 1941 e il gennaio del 1946, quando la popolazione passa da 196,7 milioni a 170,5 milioni[vii]. Si tratta di una differenza imputabile unicamente alla guerra e all’invasione nazista, che costò all’Urss oltre 20 milioni di morti.

Tutto questo non significa che l’Urss sia stata esente da errori, ma che la sua storia non può essere derubricata a fallimento economico e massacri di massa.

b) Un altro punto, che riguarda in particolare l’Italia, consiste nel fare i conti con l’esperienza del Partito comunista e con i suoi errori, in particolare quelli commessi durante la segreteria Berlinguer (fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre, accettazione della Nato e politica dei sacrifici). Una analisi che non è stata fatta pienamente e che non può essere sottaciuta se si vuole capire meglio come andare avanti.

c) Sviluppare il marxismo in modo creativo. Il marxismo non è un dogma ma una guida per l’azione. Soprattutto bisogna rimettere al centro dell’attenzione il concetto di analisi di fase, ossia la capacità di individuare le tendenze e le caratteristiche tipiche del modo di produzione capitalistico in un dato periodo storico e in una data situazione geografica. In pratica va fatta una analisi concreta della situazione concreta, intendendo per concreto l’insieme dei rapporti economici, politici e culturali e delle relazioni tra di loro.

d) Sviluppare un programma di medio periodo e ridefinire un modello di socialismo adeguato alla realtà dei Paesi a capitalismo avanzato. Il programma di medio periodo consta della capacità di definire una proposta politica e economica di fronte alla crisi del capitale, che permetta di accumulare forze. Un nuovo modello di socialismo è necessario se vogliamo che la trasformazione del modo di produzione capitalistico esca dalla sfera delle enunciazioni di principio e si confronti con la realtà. Questo aspetto si ricollega al primo punto, l’analisi dell’Urss e del comunismo novecentesco, perché la definizione di un nuovo modello di socialismo deve tenere conto dell’esperienza passata, degli errori come dei successi. In questo senso, siamo avvantaggiati rispetto ai bolscevichi del 1917, perché all’epoca per la costruzione del socialismo non c’era alcuna esperienza precedente di cui tenere conto, ad eccetto della Comune di Parigi, che era durata pochi mesi, oggi, al contrario, abbiamo cento anni di esperienza che vanno dal 1917 alla Cina attuale di Xi Jinping.

e) Mettere al centro della ridefinizione di un programma di medio periodo l’uscita dall’ euro, dalla Ue e dalla Nato, per le ragioni dette sopra.

f) Infine, lavorare per l’unità dei comunisti, che sia basata non solo su aspetti identitari ma soprattutto sulla condivisione di una analisi del capitalismo e del socialismo novecentesco.

Note

[i] K. Marx, Il capitale, Newton Compton editori, Roma 1970, p.548.

[ii] K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma 1979, p. 25.

[iii] Istat, Rapporto annuale, 2024, p.77.

[iv] D. Affinito e M. Gabanelli, Stipendi dei top manager 649 volte quelli di un operaio, “Corriere della sera”. https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/stipendi-top-manager-649-volte-quello-un-operaio/8b7ecab8-0065-11ed-8d2e-fdedbee87a78-va.shtml

[v] Eurostat, database.

[vi] Evercom. https://www.evercomsrl.net/le-piu-grandi-economie-del-mondo-dimensionate-dal-pil-1970-2020/

[vii] Wikipedia, Demografica dell’Unione sovietica. https://it.wikipedia.org/wiki/Demografia_dell%27Unione_Sovietica

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About Domenico Moro

Domenico Moro è nato a Roma nel 1964. È laureato in sociologia ed è ricercatore presso l'Istat, dove si occupa di indagini economiche strutturali sulle imprese. Ha lavorato nel settore commerciale di uno dei maggiori gruppi multinazionali mondiali ed è stato consulente della Commissione Difesa della Camera dei deputati. Collabora con quotidiani e riviste nazionali ed è autore di diversi volumi di carattere economico, politico e militare. Negli ultimi anni ha pubblicato il Nuovo Compendio del Capitale.

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