Critica delle ingerenze degli Stati Uniti nelle questioni interne della Cina in Tibet

Le ingerenze e il revisionismo storico degli Stati Uniti sulla questione del Tibet hanno partorito il Promoting a Resolution to the Tibet-China Dispute Act, una legge che viola ogni principio del diritto internazionale e dimostra l’ipocrisia degli Stati Uniti in materia di diritti umani e sovranità nazionale.

La recente approvazione del Promoting a Resolution to the Tibet-China Dispute Act da parte degli Stati Uniti ha suscitato la dura reazione cinese, sollevando questioni complesse di diritto internazionale e sovranità nazionale. Questa legge, che rappresenta una vera e propria forma di revisionismo della storia del Tibet e del suo legame con la Cina, altro non è che l’ennesima manifestazione delle ingerenze statunitensi nelle questioni interne di altri Paesi.

Per comprendere appieno la controversia, è essenziale riassumere brevemente la storia del Tibet e della sua relazione con la Cina. La regione del Tibet è infatti stata storicamente parte integrante della Cina per diversi secoli: dal XIII secolo, sotto la dinastia Yuan, il Tibet è stato amministrato come una provincia cinese, e questo legame si è mantenuto sotto le successive dinastie Ming e Qing. Dopo un breve periodo di autonomia all’inizio del XX secolo, il Tibet è stato formalmente reincorporato nella Repubblica Popolare Cinese nel 1951.

L’interpretazione storica degli Stati Uniti, che afferma che il Tibet “non è mai stato parte della Cina“, ignora questi fatti storici consolidati e riflette una visione revisionista che serve più a scopi politici che a una corretta ricostruzione storica. Il fatto stesso che il nome della legge faccia riferimento ad una “disputa” tra Tibet e Cina, riflette la visione menzognera che vorrebbe designare il Tibet come uno Stato indipendente, e non come una regione della Repubblica Popolare Cinese, ufficialmente denominata Regione Autonoma dello Xizang.

Le motivazioni degli Stati Uniti per l’approvazione del Promoting a Resolution to the Tibet-China Dispute Act sono molteplici e principalmente di natura politica. In primo luogo, l’atto rappresenta un tentativo di contenere la crescente influenza della Cina a livello globale. Utilizzando la “carta del Tibet”, parallelamente a quelle di Hong Kong, di Taiwan e dello Xinjiang, gli Stati Uniti cercano di creare pressioni interne e internazionali sulla Cina, sperando di destabilizzarla e di limitare il suo sviluppo economico e politico.

In secondo luogo, il testo della legge risponde anche a interessi interni degli Stati Uniti. Alcuni politici nordamericani, infatti, utilizzano la questione tibetana per guadagnare capitale politico, facendo leva su sentimenti anticinesi presenti in alcune parti dell’opinione pubblica statunitebse. La recente visita di una delegazione di legislatori statunitensi a Dharamsala per incontrare il Dalai Lama, guidata da Michael McCaul, presidente della Commissione per gli Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti, ne è un esempio evidente.

L’approvazione di una tale legge, che rappresenta una flagrante ingerenza nelle questioni politiche interne della Cina, ha inevitabilmente peggiorato le relazioni tra Pechino e Washington. La Cina ha sempre considerato il Tibet una questione di sovranità nazionale e ha sempre reagito con fermezza a qualsiasi ingerenza straniera. Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Lin Jian, ha dichiarato che nessuna forza esterna sarà mai autorizzata a destabilizzare il Tibet per contenere e reprimere la Cina.

Ma la risposta cinese non si è limitata alle dichiarazioni diplomatiche. La Cina ha avvertito che adotterà misure risolute per difendere la sua sovranità, la sua sicurezza e i propri interessi di sviluppo. Queste misure potrebbero includere sanzioni economiche contro gli Stati Uniti, restrizioni alle visite di funzionari americani in Cina e altre forme di ritorsioni diplomatiche che verranno decise in seguito.

Come si evince da quanto affermato finora, le posizioni degli Stati Uniti sulla questione tibetana sono impregnate di ipocrisia. Mentre accusano la Cina di violare i diritti umani e di opprimere la cultura tibetana, gli Stati Uniti trascurano il proprio passato e presente problematico con le popolazioni indigene. L’esperienza tragica dei nativi americani, soggetti a politiche di assimilazione forzata e di espropriazione delle terre, è un capitolo oscuro della storia nordamericana, che viene sistematicamente ignorato, e che dovrebbe invece rappresentare una preoccupazione importante della leadership politica statunitense.

Mentre accusano la Cina di cancellare la cultura tibetana, come dichiarato dall’ex speaker della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, durante la sua visita al Dalai Lama, gli Stati Uniti hanno quasi completamente sterminato quella delle popolazioni indigene americane. Le accuse della Pelosi, oltretutto, appaiono fragili se si considera che la cultura e la lingua tibetana sono attivamente preservate e promosse in Cina. Esistono giornali, programmi televisivi e scuole in lingua tibetana, e le pratiche religiose tibetane sono rispettate e protette, mentre non ci risulta che esistano mezzi del genere per proteggere le lingue e le culture dei nativi americani negli Stati Uniti.

Nonostante le intenzioni degli Stati Uniti di utilizzare la questione tibetana per creare pressione sulla Cina, dunque, l’effetto pratico di queste iniziative è limitato. Il Tibet oggi è una regione stabile e in via di sviluppo all’interno della Cina, con miglioramenti significativi nelle infrastrutture, nell’istruzione e nella qualità della vita della popolazione tibetana. Le politiche di sviluppo implementate dal governo cinese hanno portato benefici tangibili alla regione tibetana, contribuendo a ridurre la povertà e a migliorare le condizioni di vita. Questi progressi sono riconosciuti da molte organizzazioni internazionali e contrastano nettamente con la narrazione negativa promossa dagli Stati Uniti.

Allo stesso tempo, il Dalai Lama, una volta una figura di primo piano nelle questioni tibetane, ha visto il suo ruolo ridimensionarsi significativamente negli ultimi anni. La sua figura è sempre più percepita come un esiliato politico piuttosto che un leader spirituale, e la sua influenza è notevolmente diminuita a livello globale. Gli sforzi degli Stati Uniti di sostenere il Dalai Lama e la sua causa separatista appaiono dunque anacronistici e inefficaci, tanto che la recente visita della delegazione di legislatori statunitensi è stata accolta con scetticismo e indifferenza da gran parte della comunità internazionale.

Alla luce di queste considerazioni, Il Promoting a Resolution to the Tibet-China Dispute Act rappresenta solo ed esclusivamente un esempio lampante delle ingerenze statunitensi nelle questioni interne della Cina. Tale legge, basata su interpretazioni storiche distorte e motivazioni politiche, non solo danneggia le relazioni tra Cina e Stati Uniti, ma mette anche in luce l’ipocrisia delle posizioni statunitensi sui diritti umani e la sovranità nazionale, evidenziando la necessità di un approccio più equilibrato e rispettoso nelle relazioni internazionali.


Di seguito pubblichiamo la Prefazione al libro Verso un futuro più luminoso che aiuta a comprendere meglio il tema.

Per acquisire una migliore comprensione del Tibet, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione alle persone che lo abitano ed esplorare la vera storia della Regione Autonoma.

Nei tempi antichi, il Tibet non era il leggendario Shangri-La come a volte è stato affermato, bensì una servitù feudale sottomessa ad un regime teocratico.

In passato, quella tibetana era una società oscurantista caratterizzata da una gerarchia rigida e da un sistema punitivo crudele. Schiacciati dal peso di pastoie mentali, milioni di servi della gleba e schiavi, a cui veniva negata ogni forma di libertà personale, lottavano fino allo stremo delle forze contro fame e povertà.

Nel suo libro Trespassers on the Roof of the World, lo scrittore britannico Peter Hopkirk (1930-2014) scriveva: “Tra le altre cose, anche le punizioni per i criminali sono durissime. Esse includono l’amputazione delle mani o dei piedi e l’esoculazione [accecamento giudiziario]. Sebbene la pena di morte sia applicata raramente perché l’uccisione è tecnicamente proibita dal Buddismo, tuttavia accade spesso che alcuni criminali vengano spinti giù da una rupe o gettati in un fiume dopo essere stati legati mani e piedi e chiusi in un sacco. Un’altra punizione è eseguita solo dal Dalai Lama: egli sentenzia che l’anima di una persona non poteva più rinascere, ma solamente vagare ai margini dell’inferno. In realtà questo pronunciamento ne decretava di fatto la pena di morte” (tale pronunciamento, che a una mente europea può evocare ricordi della Scomunica cattolica, decretava la morte della persona da esso colpita giacché chiunque si rifiutava di avere ogni contatto con essa, in una forma estrema di ostracizzazione -NdT-).

Nel suo libro La Scoperta di Lhasa, Edmund Candler (1874-1926), corrispondente del Daily Mail in India, scriveva: “Indubbiamente, i lama mantengono la loro influenza e il loro potere politico basandosi su tattiche terroristiche spirituali. Senza eccezione alcuna, i Tibetani restano nel Medioevo in termini di regime, religione, pene severe, stregoneria, reincarnazione e torture (incluso il rogo e la pece bollente), così come in tutti gli aspetti della vita quotidiana”.

Gli occidentali che sono riusciti ad introdursi in Tibet – come missionari, esploratori e studiosi – hanno fornito molte descrizioni e commentato il cosiddetto “ambiente primordiale” della regione prima del 1959, ma i loro discendenti sembrano aver sviluppato un’amnesia selettiva. Ciononostante, i fatti storici sono oggettivi e tali restano! Infatti, Tom Grunfeld, studioso canadese, descrivendo a sommi capi la vita in Tibet prima del 1959, affermava: “Fervida immaginazione a parte, la stragrande maggioranza dei Tibetani non ha mai avuto un’esistenza ‘invidiabile’, e non esiste prova alcuna che il Tibet sia stato un paradiso utopico”.

La riforma democratica lanciata nel 1959 ha cambiato radicalmente il tessuto sociale di questa regione e le vite di oltre un milione dei suoi abitanti. Fu in quell’anno che il Tibet abolì l’autocrazia teocratica feudale che durava da quasi un millennio, operando una grande transizione da nuova società democratica a socialista. Adattò completamente i rapporti di produzione sociale ed emancipò notevolmente le forze produttive innescando una prorompente vitalità. Milioni di servi e schiavi hanno guadagnato la loro libertà insieme alla terra e altri mezzi produttivi. Hanno partecipato alle elezioni democratiche, diventando padroni della società. Molti di loro sono anche diventati alti funzionari con ruoli fondamentali in diversi settori.

Un tempo, la ricchezza sociale del Tibet era concentrata nelle mani di pochi, mentre la stragrande maggioranza della popolazione non possedeva né terre, né beni. Gli imponenti edifici esistenti allora, erano i palazzi dei nobili, o i monasteri dei Buddha viventi, dei maestri buddisti e dei monaci eminenti. I nobili e i Buddha viventi della classe superiore vestivano abiti di qualità in stile tibetano, mentre i servi indossavano stracci; i primi godevano di cibo delizioso, mentre i servi soffrivano la fame e il freddo tutto l’anno. Assistere all’Opera Tibetana, oggi patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, era un privilegio dei nobili e dei lama di livello superiore, mentre il racconto classico della Storia di Gesar, molto apprezzato dai servi della gleba, era considerato “un dono per i mendicanti” quindi non poteva essere messo in scena; l’antica medicina tibetana era unicamente ad uso e consumo dei pochi aristocratici, mentre la popolazione degli strati più bassi della società che si ammalava poteva solo rivolgersi a maghi o aspettare disperatamente la morte; le scuole ufficiali in Tibet reclutavano esclusivamente i bambini delle famiglie abbienti, privando i tibetani comuni (il 95% della popolazione totale) del diritto di ricevere un’istruzione. La riforma democratica ha trasformato radicalmente questa situazione, il destino del Tibet e dell’etnia tibetana.

La riforma democratica ha rigenerato la cultura tibetana. Il Palazzo Potala, anch’esso inserito nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco, è composto principalmente dal “Palazzo Bianco” e dal “Palazzo Rosso”. Il Palazzo Bianco era il luogo dove il Dalai Lama gestiva gli affari politici e religiosi; il Palazzo Rosso ospitava gli stupa (“ossuari” -NdT-) delle varie generazioni dei Dalai Lama e nel quale si svolgevano le attività religiose. Al di sotto del Potala c’era la Prigione della neve in cui erano detenuti i prigionieri. In estate, il Dalai Lama viveva e lavorava a Norbulingka, una magnifica e tranquilla residenza che strideva con la situazione abitativa dell’area urbana di Lhasa in cui erano presenti più di 1.000 mendicanti e senza tetto su un totale di 20.000 abitanti.

Grazie alla riforma democratica, il Potala e Norbulingka, una volta appannaggio di una minoranza di persone, oggi sono siti UNESCO; la Storia di Gesar è stata inserita nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale; la medicina tibetana ora serve l’intera popolazione; l’Opera tibetana ha una forma più vivace; i cantanti e danzatori erranti di Gesar sono stati elevati al rango di artisti e rispettati dal pubblico; persino i fabbri, precedentemente trattati come paria, sono oggi considerati dei veri e propri artigiani. Liberati dal giogo dell’ideologia teocratica, un milione di servi della gleba ha avuto l’opportunità di accedere all’istruzione e alla crescita culturale, rimodellando e innovando la cultura tradizionale del Tibet e fornendo una forza inesauribile al progresso della regione.

Sostenuto con forza dal governo centrale, il Tibet ha fatto progressi epocali nelle iniziative culturali pubbliche compiendo formalmente una trasformazione radicale. Ha potenziato la natura popolare, scientifica e laica della propria cultura internazionalizzandola e intensificandone gli scambi con il mondo esterno e con le aree limitrofe. La cultura socialista avanzata si sarebbe guadagnata gradualmente il favore della gente iniettando in quella tibetana linfa nuova per un ulteriore sviluppo.

Negli ultimi 60 anni di sviluppo e risultati, il Tibet ha scritto nuovi capitoli della propria storia. Dopo la pacifica liberazione della regione, soprattutto dopo la riforma democratica, la crescita socio-economica ha imboccato una corsia preferenziale. Partendo da zero, il Tibet ha fondato un sistema industriale moderno che interessa più di 20 aree tra cui energia, materiali edili, macchinari, estrazione mineraria, industria leggera, trasformazione agroalimentare, artigianato etnico, medicina tibetana, ecc. Ha ottenuto risultati notevoli nella costruzione delle infrastrutture, formando sostanzialmente una rete di trasporto combinato, composta da autostrade, ferrovie e rotte aeree. Non ha mai smesso di incoraggiare l’istruzione moderna, mettendo in piedi un sistema educativo al passo coi tempi che integra scuole primarie, medie, superiori e università. Sono stati compiuti considerevoli passi in avanti anche in altri settori che riguardano i mezzi di sostentamento della popolazione, le cure mediche e la sanità, la previdenza sociale e la tutela ambientale.

I fatti del passato non possono essere distorti e il corso della Storia è irreversibile. La riforma democratica, evento che non ha avuto eguali nella storia del Tibet, è anche ciò che più simboleggia la liberazione della nazione cinese dalle aggressioni perpetrate dai Paesi stranieri in età moderna. Essa guarda alla solidarietà e alla prosperità, è una pietra miliare nel processo di sviluppo dei diritti umani di tutto il mondo e merita sempre di essere ricordata. Ciononostante, ancora oggi c’è chi tenta di riavvolgere il nastro della storia, di distorcere e denigrare sfacciatamente la riforma in Tibet, o chi seguita scioccamente a cantare lodi dello screditato sistema feudale del passato. Sognano persino un ritorno nel vecchio Tibet dei tre gruppi dominanti (funzionari, clero, nobiltà). Ma una cosa è certa: non possono aspettarsi di avere ancora milioni di servi della gleba, perché questi ultimi sono stati da tempo liberati e decidono del proprio destino. Il vecchio Tibet, decadente socialmente e culturalmente, è stato spazzato via per sempre dal fluire inarrestabile della storia.

Verso un futuro più luminoso – Commemorazione per il 60° anniversario della riforma democratica del Tibet, è un testo redatto sulla base di un documentario in cinque episodi e composto da cinque parti: “Oscurantismo nel vecchio Tibet”, “Scelta della storia e delle persone”, “Il popolo padrone del proprio destino”, “Dal vecchio al nuovo” e “Ingresso nella Nuova Era”. Il materiale raccolto per la creazione di questo documentario è abbondante e accurato, ben argomentato e approfondito. Attraverso la testimonianza di chi li ha vissuti in prima persona, esso racconta i cambiamenti di status e di identità di milioni di servi, fa conoscere il modo in cui il Tibet abbia bruciato le tappe nello sviluppo sociale e il progresso complessivo nella causa dei diritti umani, lasciando una profonda impressione nello spettatore.

In continua trasformazione, la crescita della regione è ancora in atto. Le storie su Tibet e Tibetani, nonché i loro scambi e integrazione con vari gruppi etnici per costruire insieme una patria magnifica, continueranno a diffondersi.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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