Porto Rico: presto uno stato degli USA? Tutt’altro che certo anche dopo il referendum

Domenica 11 giugno, si è tenuto a Porto Rico un referendum circa lo status dell’isola. Attualmente territorio non incorporato all’interno del Commonwealth degli Stati Uniti d’America, Porto Rico mantiene questo status sui generis sin dalla fine della guerra ispano-americana, nel 1898, che segnò la fine definitivo dell’impero spagnolo con la perdita delle ultime colonie da parte di Madrid (Cuba e le Filippine erano gli altri retaggi ancora esistenti del glorioso impero iberico).

IL QUESITO DEL REFERENDUM

Quello di domenica scorsa non è stato il primo referendum organizzato sul tema nell’isola caraibica, la quarta per grandezza dopo Cuba, Hispaniola (il cui territorio è diviso tra gli stati di Haiti e Repubblica Dominicana) e Giamaica. In passato, si è infatti già votato su tematiche molto simili in ben quattro occasioni, l’ultima delle quali nel 2012, quando i residenti portoricani furono chiamati alle urne lo stesso giorno delle presidenziali che regalarono il secondo mandato a Barack Obama. Già in quell’occasione gli elettori votarono per l’ingresso di Porto Rico all’interno della federazione degli Stati Uniti d’America come 51° stato, ma l’unico risultato di quest’esito fu in realtà la formulazione del nuovo referendum da tenersi quest’anno.

Domenica scorsa, in occasione del quinto referendum sullo status dell’isola, gli elettori portoricani avevano tre opzioni tra le quali scegliere. Inizialmente, in realtà, il quesito prevedeva solamente due opzioni, quella della completa indipendenza o libera associazione (da definire ulteriormente in una fase successiva) e quella dell’adesione agli Stati Uniti d’America come cinquantunesimo stato, ma proprio dalla Casa Bianca è arrivata la sollecitazione ad aggiungere la possibilità di mantenere lo status quo, ovvero quello di territorio non incorporato.

BOICOTTAGGIO E RISULTATI

I sondaggi precedenti davano la vittoria dell’ingresso di Porto Rico come stato federato degli Stati Uniti (“Statehood”, come riportato sulla scheda elettorale) in vantaggio con il 52% delle preferenze, ma a cambiarne l’esito è stato il boicottaggio organizzato da alcune forze politiche opposte a questa possibilità. La formulazione dell’intestazione del quesito, infatti, includeva la definizione di Porto Rico come una “colonia degli Stati Uniti”, posizione sostenuta dall’attuale governatore dell’isola, Ricardo Rosselló. Nella campagna referendaria, Rosselló aveva infatti affermato di voler trovare una soluzione “al nostro dilemma coloniale che dura da cinquecento anni”. “Il colonialismo non rappresenta un’opzione”, aveva dichiarato ancora, “è una questione di diritti umani”.

Contro questa definizione di territorio coloniale si è schierato soprattutto Partido Popular Democrático (PPD), forza di centro-sinistra e primo partito dell’opposizione all’attuale governo portoricano, che ha dunque invitato al boicottaggio del referendum, incidendo pesantemente sull’affluenza alle urne, e dunque sulla credibilità del risultato finale. A sostenere il referendum, invece, è stato principalmente il centro-destra, ovvero il Partido Nuevo Progresista (PNP), forza politica da cui proviene il governatore Rosselló.

Leggendo solamente i dati percentuali, il risultato appare schiacciante: il 97.18% dei votanti ha optato per l’ingresso all’interno della federazione statunitense, contro l’1.50% che ha optato per la libera associazione o indipendenza, mentre solamente l’1.32% degli elettori si è espresso per il mantenimento dello status quo. Questi dati vanno però letti alla luce di un’affluenza alle urne bassissima, pari al 22.99%, un dato ben inferiore rispetto a quello di cinque anni fa, quando oltre il 78% degli aventi diritto si recò in cabina elettorale.

I POSSIBILI SVILUPPI: 51° STATO O NULLA DI FATTO?

Al momento, non è affatto certo che l’esito del referendum venga effettivamente rispettato, come del resto è già accaduto nel 2012, anche perché restano molti dubbi sull’interpretazione dello stesso. Come già dimostrato cinque anni fa, l’ingresso di Porto Rico negli USA non sarà affatto automatico: il referendum, infatti, potrebbe tuttalpiù mettere in moto un iter legislativo sia a Porto Rico che negli Stati Uniti per arrivare all’inclusione dell’isola caraibica come cinquantunesimo stato federato.

Secondo la clausola territoriale inclusa nella Costituzione statunitense (Territorial Clause of the United States Constitution), è necessario l’intervento del Congresso per cambiare lo status ad un territorio dipendente dagli Stati Uniti. Ora, lo stesso Congresso si era precedentemente detto intenzionato muoversi solamente nel caso in cui fosse stata la maggioranza assoluta dei votanti ad esprimersi favorevolmente all’ingresso di Porto Rico nella federazione statunitense. Stando alle percentuali precedentemente esposte, la maggioranza dei votanti ci sarebbe, ma allo stesso tempo non si può ignorare il dato della bassissima affluenza alle urne, che può nascondere un certo malumore nei confronti di questa soluzione.

Non c’è dubbio, indipendentemente dagli sviluppi futuri, che la situazione attuale piazza Porto Rico in un limbo che non giova certamente all’isola. Nel caso di un ingresso all’interno della federazione statunitense, per Puerto Rico ci sarebbero vantaggi soprattutto economici: si parla infatti di ben dieci miliardi di dollari di fondi federali che andrebbero ad aggiungersi a quelli che l’isola già riceve da Washington, la possibilità di commerciare liberamente con il continente e di entrare negli accordi stipulati dagli Stati Uniti con altri Paesi, compreso il NAFTA con Canada e Messico, ed il diritto di utilizzare il dollaro statunitense come propria valuta.

I portoricani, che già dispongono del passaporto statunitense e che possono entrare liberamente negli USA, diventerebbero inoltre cittadini a tutti gli effetti, e potrebbero votare per l’elezione del presidente, questione che tiene decisamente banco nel dibattito interno all’isola. “Ci sono tre milioni e mezzo di cittadini che chiedono democrazia”, aveva sottolineato il governatore Rosselló nel corso della campagna referendaria. “Gli Stati Uniti domandano sempre democrazia in altre parti del mondo, ma credo che non ne abbiano il diritto se non sono in grado di garantirla agli abitanti di Porto Rico”.

Secondo Rosselló, anche Washington potrebbe avere i suoi vantaggi accogliendo fra le sue braccia quello che è stato definito potenzialmente il primo stato ispanico degli USA: “Geopoliticamente, potremmo creare dei benefici per gli Stati Uniti. Porto Rico diventerebbe un collegamento naturale con l’America Latina per il suo retaggio culturale e la sua vicinanza alla regione. Sarebbe un passo nella giusta direzione della storia avere uno stato ispanico”.

Non va dimenticato, infine, che Porto Rico sta vivendo una crisi economica senza precedenti nella storia recente, problema che spinge ulteriormente nella direzione di una soluzione diversa dal mantenimento dello status quo, tanto che la stampa d’oltreoceano non ha mancato di paragonare Porto Rico a quello che rappresenta la Grecia in Europa. Una delle cause della crisi è da ricercarsi nella soppressione delle esenzioni fiscali delle quali poteva in precedenza giovarsi l’isola, voluta dall’allora presidente George W. Bush ed attuata dal governo di Washington nel 2006.

CLICCA QUI PER LA PAGINA FACEBOOK

Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte e del link originale.

About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

There are 1 comments

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.