Libano: la vittoria di Hezbollah manda in tilt il governo israeliano

Le elezioni politiche dello scorso 6 maggio in Libano sono state caratterizzate dalla vittoria di Hezbollah e dei suoi alleati. Un risultato che si inserisce nell’instabile contesto mediorientale, che vede ora lo scontro aperto tra Israele ed Iran, principale sostenitore del “Partito di Allah”.

IL LIBANO TORNA ALLE URNE DOPO NOVE ANNI

In un Paese dove i risultati elettorali ricalcano principalmente le divisioni religiose ed etniche, tanto che la costituzione garantisce una divisione equa dei seggi parlamentari tra musulmani e cristiani, i cambiamenti politici possono rivelarsi assai traumatici, soprattutto in Libano, e per diversi motivi: innanzi tutto, perché i cittadini dell’antica terra dei fenici non si recavano alle urne dal 2009, a causa di una lunga crisi politica che ha portato al rinvio di cinque anni della tornata elettorale prevista nel 2013, fatto che ha contribuito a rendere bassa l’affluenza alle urne (49.2%); in secondo luogo, perché il Libano si trova incastonato in una posizione assai rilevante nel contesto mediorientale, tra un Paese ostile, come Israele, ed un altro da anni in preda alla guerra, come la Siria, senza dimenticare il ruolo determinante dell’Iran nella politica libanese.

Per queste ragioni, la vittoria di Hezbollah (letteralmente “Partito di Allah”, e dunque “Partito di Dio”, nota da far leggere a quei giornalisti italiani che continuano ad utilizzare l’articolo determinativo plurale davanti a questo nome) e dei suoi alleati è stata accolta come un terremoto tanto in Occidente quanto in Israele. Ma andiamo con ordine: capo del governo uscente era il sunnita Saʿd Ḥarīrī, secondo figlio di Rafīq al-Ḥarīrī, ex primo ministro assassinato nel 2005, e capo del Movimento il Futuro (Tayyar Al-Mustaqbal), il quale non ha potuto far altro che incassare il colpo di una bruciante sconfitta, passando da 29 a 20 seggi, sui 128 che compongono il parlamento libanese. Il raggruppamento sunnita, in particolare, ha pagato l’abbandono dell’Arabia Saudita, che in passato aveva sostenuto Ḥarīrī, ma che nel frattempo ha cambiato campo, avvicinandosi in maniera assai esplicita ad Israele.

Al contrario, chi ha potuto esultare è lo storico leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che non solo ha visto la propria forza politica passare da 13 a 18 seggi (contando anche i sostenitori indipendenti), ma che soprattutto ha constato la vittoria della coalizione sciita guidata congiuntamente in compagnia di Nabih Berri, leader del movimento Amal (“Speranza”), per un totale di 41 seggi. Nasrallah ha ricordato che la vittoria del raggruppamento sciita è arrivata nonostante “gli Stati Uniti ed alcuni Paesi del Golfo abbiano portato avanti una campagna di denigrazione contro Hezbollah, gettando veleno nell’opinione pubblica” (ricordiamo che gli Stati Uniti considerano Hezbollah come un’organizzazione terroristica). “I loro sforzi, tuttavia, sono falliti”, ha aggiunto Nasrallah. “Nessuno nel mondo può colpire Hezbollah, grazie al sostegno che riceviamo dai vari strati della società libanese. Le città nel sud del Libano hanno svolto un compito di resistenza di fronte ai pericoli posti da Israele e dai gruppi terroristici”. Come dire: la definizione di terrorismo varia ampiamente a seconda dei punti di vista.

Per quanto riguarda la galassia dei partiti cristiani, il primo resta il Movimento Patriottico Libero diGebran Bassil e soprattutto del fondatore Michel Aoun, attuale Presidente della Repubblica, la cui coalizione ha raccolto un totale di 29 seggi, mentre le Forze Libanesi di Samir Geagea, compagine che vanta una dottrina militarista che possiamo definire come estremismo cristiano, protagonista di fatti sanguinosi nel corso della guerra civile, ne ha conquistati quindici. Tra i partiti minori, infine, segnaliamo i nove seggi del Partito Socialista Progressista, condotto da Kamal Jumblatt, prima tra le forze politiche a non rifarsi esplicitamente a confessioni religiose.

I RISULTATI DELLE ELEZIONI LIBANESI NEL CONTESTO MEDIORIENTALE

Come abbiamo ricordato in precedenza, la vita politica libanese è scandita dalle divisioni tra gruppi religiosi. La costituzione stipulata nel 1943, infatti, oltre a prevedere la divisione del parlamento tra cristiani e musulmani (all’interno dei quali vi sono ulteriori divisioni), assegna anche alle diverse confessioni le varie cariche politiche più importanti. Il ruolo di capo di stato, attualmente occupato da Michel Aoun, spetta ad un cristiano maronita, quello di capo del governo ad un musulmano sunnita (infatti il premier uscente è Rafīq al-Ḥarīrī) e quello di presidente del Parlamento ad un musulmano sciita (attualmente Nabih Berri, che spera di essere confermato per la carica che occupa sin dal 1992).

Questo complicato meccanismo serve sicuramente a garantire un delicato equilibrio tra i gruppi e ad evitare una nuova guerra civile, ma allo stesso tempo è stato fortemente criticato da diversi osservatori politici, perché troppo rigido, oltre a prestarsi facilmente ad accordi sottobanco tra i leader politici e ad influenze straniere. In un articolo apparso sul New York Times, ad esempio, Mohamad Bazzi(professore di giornalismo presso la New York University) ha interpretato in questo modo il forte astensionismo: “La maggioranza silenziosa ha lanciato un messaggio chiaro alla classe politica: un cambiamento di facciata della legge elettorale non è abbastanza. Il Libano ha bisogno di un metodo nuovo e più democratico per la divisione dei poteri, che non sia facilmente manipolabile da leader settari e potenze straniere”. Inoltre, aggiungiamo noi, la secolarizzazione della società rappresenta un realtà anche in Libano, ed è assai probabile che gran parte dell’elettorato non si riconosca effettivamente in una divisione tra religioni nella quale non trovano posto gli atei ed i promulgatori della laicità dello Stato.

Tornando al discorso del professor Bazzi, proprio di influenze straniere diventa necessario parlare quando si tratta della politica libanese. Come abbiamo accennato nel primo paragrafo, in Medio Oriente si sta combattendo una battaglia che vede coinvolte soprattutto due potenze regionali come Israele ed Iran, con quest’ultimo che da sempre rappresenta il punto di riferimento di Hezbollah. La partita, fino ad ora, si è giocata soprattutto in Siria, dove il governo sionista non ha perso l’occasione per stuzzicare le forze iraniane presenti nel Paese di Bashar al-Assad, senza dimenticare le recenti uscite del premier Benjamin Netanyahu sul fantomatico programma nucleare segreto di Tehrān, prese sul serio dal solo Donald Trump, ma quasi ignorate dagli altri storici alleati occidentali. Il Libano, soprattutto in seguito al successo elettorale di Hezbollah, da sempre nemico giurato di Tel Aviv (altro che Gerusalemme capitale), si inserisce in questo scacchiere come altra area di conflitto.

Che i risultati elettorali non siano piaciuti ad Israele, lo si è capito subito per mezzo dell’account Twitter di Naftali Bennett, Ministro dell’Istruzione del governo di Benjamin Netanyahu, che ha lanciato un sommario “Hezbollah = Libano”, aggiungendo che Israele “non farà nessuna differenza tra lo Stato sovrano del Libano ed Hezbollah, e considererà il Libano responsabile di ogni azione proveniente dai propri territori”. Quasi una dichiarazione di guerra, affidata oltretutto ad un ministro le cui competenze dovrebbero essere ben altre, così come bellicose sono suonate le dichiarazioni di Netanyahu circa l’Iran: una posizione che Israele può permettersi di avere solo grazie all’appoggio incondizionato di Donald Trump, il quale di recente ha annunciato, oltre allo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, ma che tradisce anche un certo nervosismo da parte dello Stato sionista.

La partita, in Medio Oriente, si fa sempre più dura, ed un confronto armato diretto tra Israele ed Iran (con i rispettivi alleati) non sembra più impossibile. E pensare che, quando fu eletto Hassan Rouhani alla presidenza della Repubblica Islamica, negli Stati Uniti qualcuno addirittura festeggiò la vittoria di un capo di stato disposto al dialogo rispetto al “malvagio” Mahmud Ahmadinejad. Il dialogo, da parte iraniana, c’è stato, ma ad essere sordi sembrano i sionisti di Tel Aviv e gli imperialisti di Washington, e, se Tehrān deciderà di realizzare davvero la propria bomba atomica, ne avrà tutte le ragioni.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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