Paesi Bassi: il paradiso fiscale dalla memoria corta

Il governo olandese si mostra come il più rigorista tra quelli dell’Unione Europea, ma dimentica il sostegno ricevuto per le inondazioni causate dal Mare del Nord nel 1953. Inoltre, i Paesi Bassi sono oggi uno dei principali paradisi fiscali del mondo, sottraendo fondi al fisco degli altri stati.

Mentre in tutto il continente prosegue la pandemia da nuovo coronavirus, il governo olandese di destra guidato dal primo ministro Mark Rutte continua a perseguire la linea dell’ottusa inflessibilità nei confronti dei Paesi più colpiti, Italia compresa. I Paesi Bassi, volgarmente noti come Olanda – che in realtà ne è solamente una regione -, affermano di non essere disposti a pagare i debiti di altri stati, e respingono dunque qualsiasi forma di solidarietà interna all’Unione Europea.

Tali atteggiamenti mostrano come il costrutto europeo e la propaganda che lo accompagna abbiano ben poco valore di fronte ad una crisi di tali dimensioni, dimostrandosi inadeguati ad affrontare le situazioni di emergenza: ma non è di questo che vogliamo parlare oggi. La posizione olandese ci sembra infatti ancor più riprovevole tendendo conto di alcuni elementi riguardanti la storia e l’attualità.

Partiamo da quello più antico, tornando indietro al 1953, l’anno della grande inondazione causata dal Mare del Nord, che colpì il Regno Unito, il Belgio e sopratutto i Paesi Bassi, nella notte tra il 31 gennaio ed il 1° febbraio. In totale, le inondazioni causarono 2.551 morti, dei quali ben 1.836 in territorio olandese, ma anche la morte di trentamila animali per annegamento, la distruzione di oltre diecimila edifici ed il grave danneggiamento di altri 37.300. I Paesi Bassi, che dispongono di un territorio per il 20% sotto il livello del mare e per il 50% ad appena un metro di altitudine, subirono gravissimi danni in tutto il Paese, con la distruzione del 9% della superficie agricola, a causa del cedimento di ben 89 dighe. In totale, si registrarono danni per il valore di un miliardo di fiorini olandesi.

In quell’occasione, i Paesi Bassi riuscirono a rialzarsi solamente grazie all’intervento solidale degli altri Paesi. Le operazioni di salvataggio nelle regioni più colpite, in particolare nella regione costiera della Zelanda, furono condotte congiuntamente da forze armate olandesi, belghe, francesi, britanniche e statunitensi. Svezia, Norvegia e Danimarca inviarono materiali da costruzione e case prefabbricate per sostituire gli edifici danneggiati o distrutti. Dalla Germania giunsero aiuti per 600.000 marchi tedeschi, oltre a coperte e stivali di gomma, ed inoltre venne lanciato un programma di approvvigionamento tessile e di riavviamento e di ricostruzione delle imprese industriali e commerciali distrutte. Francia e Danimarca si impegnarono ad organizzare delle partite di calcio amichevoli a scopo benefico.

Anche l’Italia, in seguito a quella tragedia, non rimase a guardare. Nonostante la seconda guerra mondiale fosse terminata solamente otto anni prima ed il Paese si trovasse ancora nella fase della ricostruzione postbellica (il Piano Marshall si era concluso solo nel 1951) e fosse stato colpito appena due anni prima dall’alluvione del Polesine, l’Italia inviò ai Paesi Bassi duecento milioni di lire, una cifra che equivarrebbe ad oltre tre miliardi di euro odierni, ai quali si aggiunse un ulteriore milione di lire stanziato dalla Regione autonoma della Sicilia. L’Italia inoltre offrì l’assistenza dell’aviazione militare e dei paracadutisti, ed il presidente Luigi Einaudi si recò sui luoghi del disastro.

È bene sottolineare, in tempi in cui si parla solamente di prestiti e di restituzioni con interessi e conseguenti indebitamenti, che tutti i Paesi che intervenirono a sostegno dei Paesi Bassi nel 1953 lo fecero unicamente con donazioni, senza chiedere nulla in cambio.

Tornando all’attualità, vi è una questione che troppo spesso viene dimenticata, ovvero il ruolo dei Paesi Bassi nel continente europeo come paradiso fiscale. In tutte le classifiche, infatti, questo Paese è considerato tra i principali dieci paradisi fiscali del mondo, in alcuni casi addirittura al primo posto, come nello studio ITEP (Institute on Taxation and Economic Policy), che nel 2017 poneva la terra dei tulipani al comando della classifica davanti a Irlanda e Bermuda [1]. Tale posizionamento è stato confermato anche nel 2018 da un documento del Fondo Monterio Internazionale (FMI), secondo il quale i Paesi Bassi sarebbero il più grande paradiso fiscale del mondo davanti al Lussemburgo e ad Hong Kong [2].

In pratica, questo significa che le grandi multinazionali preferiscono avere le proprie sedi in stati come Paesi Bassi, Irlanda e Lussemburgo, nei quali possono godere di regimi fiscali vantaggiosi, operando però in tutti i Paesi dell’Unione Europea senza nessuna difficoltà, grazie agli accordi in vigore tra gli stati membri, che garantiscono la libera circolazione di merci, servizi e capitali. Secondo il National bureau of economic research di Cambridge [3], tra gli stati membri dell’Unione Europea ben sei possono essere classificati come paradisi fiscali: oltre ai tre già citati, vanno aggiunti Belgio, Malta e Cipro. Sempre per l’istituto britannico, i Paesi Bassi sarebbero il terzo paradiso fiscale al mondo, alle spalle di Irlanda e Singapore.

Calcolando solamente le aziende che hanno sede legale nei Paesi Bassi, alcune delle quali figurano tra le più grandi multinazionali del mondo, come Microsoft, se queste fossero costrette ad avere sede legale in Italia dovrebbero pagare circa venti miliardi di euro al fisco italiano: si tratta letteralmente di soldi che vengono sottratti allo stato italiano a causa delle politiche fiscali olandesi. Lo stesso avviene con gli altri paradisi fiscali europei, come l’Irlanda, dove hanno stabilito la propria sede aziende come Apple, Facebook e Google.

In conclusione, il governo olandese di Mark Rutte, anziché dare lezioni agli altri stati europei, dovrebbe farsi un esame di coscienza e rivedere il passato ed il presente del suo Paese. Cosa che però il suo governo e quelli che lo hanno preceduto non hanno voluto fare neppure quando le istituzioni europee li hanno invitati con vigore ed insistenza a rivedere il proprio regime fiscale.

NOTE

[1] Richard Phillips; Matt Gardner; Alexandria Robins; Michelle Surka (2017). “Offshore Shell Games 2017”. Institute on Taxation and Economic Policy.

[2] “Piercing the Veil of Tax Havens VOL. 55, NO. 2”. International Monetary Fund: Finance & Development Quarterly. June 2018.

[3] https://www.nber.org/papers/w24701.pdf

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

There are 2 comments

  1. ERIC

    Like to compare apples and lightbulbs… interesting topic I agree, wrong ‘paragone’ – remember in 2017 the Italian state missed about 45B of tax income due to evasion. It is worthy a discussion but there are so many different variables to harmonise in this discussion ..

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