L’inutile devastazione imperialista dell’Afghanistan

Gli Stati Uniti lasciano un Paese che hanno devastato per decenni senza ottenere il benché minimo risultato, visto che presto i talebani potrebbero tornare a governare l’intero territorio dell’Afghanistan.

Sono trascorsi quasi vent’anni da quando gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente in Afghanistan, seguiti da una pletora di Paesi vassalli, Italia compresa, mettendo a segno l’ennesima violazione dell’art. 11 della nostra Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”). Tuttavia, gli Stati Uniti sono i principali responsabili di oltre quarant’anni di devastazione di questo Paese dell’Asia centrale, visto che sin dai tempi della Repubblica Democratica dell’Afghanistan hanno finanziato, in funzione antisovietica, i gruppi islamisti che si opponevano al governo socialista.

In quest’ottica, possiamo ben dire che gli Stati Uniti hanno creato con i propri soldi e le proprie armi quegli stessi talebani che poi hanno deciso di combattere, ed ai quali ora stanno lasciando nuovamente in mano il Paese. Non si tratta di una teoria complottista, ma di un’ammissione che nel 2009 ha fatto persino Hillary Clinton, una delle più importanti esponenti dell’establishment del Partito Democratico che allora occupava l’incarico di Segretario di Stato sotto la presidenza di Barack Obama: “Ricordiamoci che le persone che stiamo combattendo oggi le abbiamo finanziate noi vent’anni fa, e lo avevamo fatto perché eravamo in lotta contro l’Unione Sovietica. […] Non volevamo vedere i sovietici controllare l’Asia centrale”. 

Ricapitolando brevemente la storia dell’Afghanistan, dopo il lungo periodo monarchico, nel 1973 venne fondata la Repubblica dell’Afghanistan, con alla presidenza Mohammed Daoud Khan, che però apparteneva alla famiglia reale. Nel 1978, ebbe luogo la Rivoluzione di Saur, organizzata dai comunisti afghani con il sostegno sovietico, che sfociò nella creazione della Repubblica Democratica dell’Afghanistan. In seguito a questo evento, gli Stati Uniti, sostenuti anche dall’Arabia Saudita, cominciarono a finanziare i gruppi islamisti che volevano trasformare l’Afghanistan in uno Stato teocratico. Solo allora, i sovietici furono costretti ad intervenire militarmente in quella che viene erroneamente ricordata come “l’invasione sovietica dell’Afghanistan”. Mosca, infatti, intervenne non per attaccare il Paese, ma in difesa del legittimo governo rivoluzionario e contro la guerriglia islamista finanziata e armata da Washington e Riyadh.

Nonostante l’azione della guerriglia islamista, la Repubblica Democratica dell’Afghanistan riuscì a garantire il benessere della popolazione nelle aree sotto il suo controllo, permettendo l’emancipazione delle donne (vedi immagine) ed instaurando numerosi altri diritti sociali. In seguito al ritiro sovietico nel 1989, però, la situazione precipitò, fino alla dissoluzione della Repubblica Democratica nel 1992, sostituita dallo Stato Islamico dell’Afghanistan, un governo islamico moderato, con grande gioia degli imperialisti statunitensi. In realtà, pur essendo il governo riconosciuto a livello internazionale, lo Stato Islamico controllava solamente il 10% del territorio, e nel 1996 venne definitivamente abbattuto da parte delle milizie del Mullah Mohammed Omar, i talebani.

L’intervento militare degli Stati Uniti ha di fatto permesso ad Hamid Karzai, il vecchio presidente dello Stato Islamico, di tornare in sella dopo un periodo di transizione, per poi cedere il testimone ad Ashraf Ghani, l’attuale presidente, in carica dal 2016. In realtà, però, i talebani hanno sempre controllato gran parte del territorio afghano, e la ritirata statunitense non poteva che avere come unico effetto quello di restituire l’interezza del Paese nelle mani del gruppo islamista. Secondo le stime, nell’arco dei prossimi tre mesi i talebani conquisteranno Kabul, ristabilendo la situazione precedente il 2001. 

La sete di egemonia statunitense ha dunque portato ad oltre quarant’anni di inutili guerre in Afghanistan, il tutto per evitare che il Paese fosse governato dai comunisti, con l’unico effetto di consegnarlo nelle mani di uno dei gruppi islamisti più retrogradi del pianeta. Ed ora, dopo aver provocato morte e distruzione per decenni, gli Stati Uniti scappano con la coda fra le gambe, restituendo l’Afghanistan a coloro che fino a ieri descrivevano come i nemici giurati di tutta la civiltà occidentale. 

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, solamente quest’anno circa 390.000 persone hanno abbandonato la propria casa a causa del conflitto. La situazione non farà altro che peggiorare, visto che molte di queste persone si sono spostate a Kabul e nelle altre città che ancora non sono controllate dai talebani, ma che presto cadranno come pedine del domino. I talebani  hanno recentemente affermato di aver ottenuto il controllo di Farha, settimo capoluogo di provincia conquistato dagli islamisti dopo Sari Pul, Kunduz, Shiberghan, Aybak, Taluqan e Zaranj. Anziché assumersi le responsabilità dei crimini commessi dal suo Paese, il presidente Joe Biden non ha trovato risposta migliore che invitare gli afghani a “difendersi da soli”: “Abbiamo speso oltre un trilione di dollari in 20 anni. Abbiamo addestrato e dotato di attrezzature moderne oltre 300.000 forze afgane. E i leader afgani devono unirsi. Devono combattere per sé stessi, combattere per la loro nazione”. Insomma, secondo Biden gli afghani dovrebbero addirittura ringraziare gli Stati Uniti.

A pensar male, la ritirata statunitense potrebbe essere considerata anche come un’arma strategica che lascerà la patata bollente alle due principali potenze della regione, la Russia e la Cina. L’Afghanistan condivide infatti un piccolo tratto di confine con la regione autonoma cinese dello Xinjiang, dove esistono gruppi estremisti islamici che fino ad ora sono stati tenuti efficacemente a bada da Pechino, ma che potrebbero trovare linfa vitale in un Afghanistan controllato dai talebani. Inoltre, tutto il confine settentrionale tocca ex repubbliche sovietiche (Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan) che sono fortemente legate a Mosca per quanto riguarda il settore della Difesa.

Intervistato dal giornale cinese Global Times, il leader dell’opposizione civile afghana Latif Pedram ha affermato che “il ritiro delle truppe statunitensi non ha posto fine alla guerra ventennale in Afghanistan. Ha posto fine alla guerra più lunga nella storia delle guerre egemoniche e di occupazione americane. […] Nonostante la presenza delle truppe statunitensi, della NATO e dei suoi alleati, la guerra in Afghanistan è continuata e continua ancora”. “Ciò che l’Afghanistan ha ereditato dagli Stati Uniti è la povertà, un aumento del tasso di disoccupazione, la distruzione dei servizi sociali, l’aumento senza precedenti delle distinzioni di classe, un divario di ricchezza, la distruzione della classe media, una vasta rete mafiosa, un’economia sommersa, l’aumento della coltivazione, della produzione e del contrabbando di droga, la tossicodipendenza tra più di 4 milioni di giovani, la guerra etnica, il crollo del buon costume, la crescita di una cultura della corruzione, del riciclaggio di denaro e della menzogna”, ha affermato ancora Pedram.

In definitiva la guerra in Afghanistan, dipinta come forma di “esportazione della democrazia”, altro non è stata che l’ennesima guerra imperialista alimentata dalla fame egemonica di Washington, che ha sfruttato ancora una volta un Paese lontano per poi abbandonarlo a se stesso dopo averlo devastato: “Sono stati rivelati i volti dell’America, dell’imperialismo e del colonialismo postmoderno, nascosti sotto la democrazia e i diritti umani americani. […] Per un intellettuale o anche normale cittadino iracheno, libico e afghano, gli Stati Uniti sono il volto dell’aggressione, dello spargimento di sangue, dell’omicidio, del saccheggio e dei crimini contro l’umanità. Per noi, l’eredità americana è una terra devastata e un sistema politico contaminato dal sangue e dall’odio”.

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About Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Dal 2012 si occupa di Vietnam, Paese dove risiede tuttora e sul quale ha pubblicato due libri: Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam (2018) e Storia delle religioni in Vietnam (2019). Ha inoltre partecipato come coautore ai testi Contrasto al Covid-19: la risposta cinese (Anteo Edizioni, 2020), Pandemia nel capitalismo del XXI secolo (PM Edizioni, 2020) e Kim Jong Un – Ideologia, politica ed economia nella Corea Popolare (Anteo Edizioni, 2020).

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